Anche il Teatro Comunale riparte a piena capienza con la prima del Barbiere di Siviglia affollata da giovani che scoprono l’emozione del teatro musicale e, grazie alle offerte under 30 e mini abbonamenti, programmano di continuare a frequentarlo. Il Comunale rinnova pubblico e modalità produttive valorizzando, come nei teatri del nord Europa, il repertorio di produzioni con questo riallestimento del 2019, con la regia di Federico Grazzini, riaccendendo gioiosamente le luci in sala e sul palco.

Dopo lo sconvolgimento pandemico tutto sembra tornare al suo posto in città. Il basket è ripartito sabato 16 al Pala Dozza con tante famiglie con bambini ai cancelli e il teatro torna in sala al Comunale dopo la falsa ripartenza dello scorso ottobre al Palazzetto dello sport. Anche in coda in Piazza Verdi, per il controllo green pass, ci sono tanti giovani grazie agli abbonamenti “mini” dell’Autunno all’Opera che si aggiungono agli strumenti già rodati della scontistica per under 30 e al last minute. Il teatro è diventato davvero accessibile a tutte e tutti, a qualunque età e tasca, l’invito esplicito sui social ad acquistare i biglietti liberati dal ritorno alla capienza piena ha tolto la soggezione di tanti a varcare l’ingresso del luogo deputato alla lirica conquistando matricole universitarie appena giunte in città, gruppetti di giovani amiche che magari da tempo avevano il desiderio di avvicinarsi a questo teatro e al suo repertorio.

La festa è completata dalla scelta, per l’avvio della stagione autunnale, di un titolo accattivante, una “commedia in musica” come la definì Rossini, che regala sorrisi e allieta per l’allegrezza lieve delle arcinote arie sostenute da un cast di spessore capace di giocare con il pubblico e ironizzare sullo stesso genere teatrale adeguandosi all’interpretazione metateatrale del regista Grazzini del lavoro rossiniano.

Attendendo l’ingresso si ascoltano le chiacchiere dei neofiti del teatro, si percepisce la loro emozione e soddisfazione di poter accedere a una prima senza doversi svenare. E’ confortante apprendere che il pubblico per l’opera c’è e che la voglia di conoscere questo genere musicale è forte. Continuando a perseguire una politica dei prezzi favorevole e seguitando a proporre percorsi di avvicinamento ai titoli in cartellone, non andremo incontro all’estinzione degli amanti dell’opera, ma a una loro costante rigenerazione.

Entrati in sala, nel prendere posto per la prima volta dopo due anni spalla a spalla con degli sconosciuti, il timore pandemico è sicuramente presente, ma ben trattenuto in una sfera intima. Spettatori e spettatrici presenti sembrano avvicinarsi ai propri posti con fiducia e serenità spinti da quell’abitudine pre covid 19 a condividere le emozioni della sala buia con sconosciuti appiccicati alla propria seduta. La paura del contagio si stempera in un’abitudine al contatto ritrovata. Si lasciano le preoccupazioni di un possibile contagio anche tra vaccinati all’esterno del teatro per abbandonarsi alla musica respirando senza ansia, pur dietro le mascherine che ci ricordano che nulla è realmente come prima.

Ogni applauso al cast è anche un applauso liberatorio, ogni risata indirizzata a gag teatrali, è al contempo sfogo al desiderio di visione condivisa, dopo tanto teatro fruito in solitaria on line.

Lo spettacolo rispetto al debutto del 2019 ha un cast in parte rinnovato a cominciare dal giovane tenore colombiano Cèsar Cortés nei panni de Il conte d’Almaviva e dalla soprano Paola Leguizamòn in quelli di Rosina; Basilio è stato interpretato con grande ironia e capacità attoriale dal basso Nicolò Donini mentre sono stati riconfermati nei ruoli del primo allestimento lo strepitoso basso Marco Filippo Romano, che eccelle per la mimica e spirito buffonesco, il baritono Roberto De Candia nelle vesti del factotum Figaro, nonché Berta e Fiorello, rispettivamente interpretati dalla soprano Laura Chierici e dal basso Nicolò Ceriani.

Cèsar Cortés ha una voce avvolgente e calda, che risulta forse meno briosa di quella di altri tenori, ma è rassicurante e convincente. Portamento da giovane amoroso eppure capace di abbandonarsi ai lato buffo del personaggio nei travestimenti. Perfetta nella sua interpretazione della vecchia serva Berta ancora mossa da pruriti amorosi è Laura Chierici, aiutata da una strepitosa parrucca e da un costume che l’avvicinano ai personaggi stregoneschi del grande animatore giapponese Hayao Miyazaki; Roberto De Candia da solo, per nulla aiutato dalla regia né da oggetti scenici, riesce a trascinare il pubblico dentro lo spirito dell’opera rossiniana al momento della sua cavatina “Largo al factotum”. Unico guizzo registico in quel momento topico infatti è stato far apparire il personaggio in mezzo alle siepi intento a potarle e poi affidargli la borsa da postino, per il resto del brano invece De Candia sta a centro palco come in una serata concerto, affidandosi solo alla sua verve comica e alla sua convincente capacità interpretativa, senza sostegno registico.

Paola Leguizamòn brilla meno della precedente interprete nel ruolo di Rosina: il ricordo del carisma di Cecilia Molinari che era stata capace di innalzare il movimento scenico e la mimica a livello di recitazione con la maschera, pur senza indossarne una, sfruttando come mascheramento l’ingombrante e vistoso costume giallo e nero, offusca la sua performance soprattutto dal punto di vista scenico per quanto vocalmente tenga alto il livello della resa generale del cast.

La lettura metateatrale della messa in scena torna a convincere: diverte infatti vedere comparire a chiusura della sinfonia d’apertura il cartello luminoso in stile cabarettistico “il Barbiere di Siviglia”, come anche lo srotolamento da parte di Figaro di un manifesto d’epoca del Barbiere o la palese finta orchestra della serenata che imita clownescamente i reali musicisti mimando di suonare in scena strumenti nemmeno in quel momento udibili nella reale orchestra in buca. Lo stesso libretto d’opera porta chiari riferimenti metateatrali, ricordati anche dalle note di regia, come il tormentone dell’accenno all’ Inutil precauzione – citata dal sottotitolo rossiniano.

Alcune importanti arie e duetti del primo atto risultano statici e sostenuti interamente dalla bravura dei cantanti abbandonati in mezzo alla scena senza una guida registica, azioni da compiere. “La calunnia è un venticello” cantata da Don Basilio è interpretata in modo eccellente, il lato caricaturale del personaggio è perfettamente reso pur nella staticità della scena, si sente la mancanza di un gioco scenico più accentuato come nei duetti seguenti con al sola eccezione del primo finale su cui tornerò in seguito. La regia viene a amplificare l’invenzione musicale e le capacità interpretative dei protagonisti per lo meno nel secondo atto che si apre già con la divertente trovata a livello scenografico di rendere visivamente la follia di Bartolo di voler segregare la ragazza dentro la casa,6 sigillando ogni cosa con il nastro segnaletico, dal pianoforte al cinghiale appeso alla parete, fino alla statua di Don Bartolo. La scena più riuscita registicamente è forse quella della lezione di canto, la vivacità musicale è finalmente raggiunta dal livello del movimento scenico. Ben evidenziato con ripetuti lanci di banconote ed eloquente mimica, il tema della corruzione e della vittoria del denaro sulle virtù dei personaggi coinvolti nella vicenda. Don Basilio accetta il denaro del Conte per tacere l’inganno ai danni di Don Bartolo e sottolinea il suo cedimento con spassosi atteggiamenti. Diverte poi la rottura della convenzione della scena parapettata con il rientrare di Bartolo non dalla porta della “stanza”, bensì da una quinta più avanzata, giustificando quasi lo stupore e l’incredulità degli astanti che vanno a cantare, di lì a poco, “la testa che gira” per lo svelamento del travestimento del Conte. Da quel momento è tutto un “delirar” per l’amore che fa smaniare anche l’anziana berta e un ragionare sulla credulità e l’incredulità fino a restare “senza fiato” per lo stupore come la bella Rosina e il suo amato svelatosi nella sua reale veste di Conte, fino all’affermarsi del regno dell’amore sorretto da “fede eterna”.

Il senso del paradosso che deve confondere “Il cervello poverello” nei diversi momenti della trama a ragione dei continui inganni e travestimenti, che aiutano a tematizzare la follia e la ricerca della verità, raggiunge quindi l’apoteosi nei due finali avvicinati registicamente dal ripresentarsi dell’elemento scenico della palla da demolizione. L’enorme palla bombarda la sicurezza granitica di Bartolo, provoca delle crepe sui muri della sua casa così come franano le sue sicurezze di poter tenere tutta per sé la bella Rosina. Il rimbombare dei muri è in fondo l’irruzione dell’irrazionale nell’ordinata vita dei protagonisti e in special modo di Bartolo, l’amore prevale sul possesso e il giubilo infine prende il posto dell’affanno.

In questa “follia organizzata”, come Stendhal definì il meccanismo musicale rossiniano in cui vengono usate sillabe che si urtano deprivate di senso dando l’idea di spersonalizzare tutti i caratteri tramutandoli in marionette, i protagonisti, nei due finali si muovono davvero come tirati da fili di una sapiente orchestrazione per affermare l’inutilità di qualunque precauzione che voglia ingabbiare i sentimenti: l’irrazionale è inarrestabile e rompe qualunque argine inondando gli animi.

Paragonando la pandemia a quella palla da demolizioni potremmo dire che anche le nostre granitiche convinzioni di poter vivere eternamente nel mondo e nel modo a cui eravamo abituati, sono state spazzate via da nuove consapevolezze e nuove modalità di fruizione della socialità e quindi dei luoghi della cultura. Per ora, pur mascherati e in parte timorosi, ci siamo riappropriati degli spazi, per troppo tempo lasciati deserti, dei teatri. Ora va piano piano ricostruita l’abitudine, va lasciato spazio anche alla legittima paura in quanto forza irrazionale, contrastandola però con attento monitoraggio sanitario della situazione e del tempo di copertura dei vaccini. Potremmo dover stare in allerta ancora se dovesse calare,con il passare del tempo, il potere del vaccino di tutelarci. Forse in attesa di terze dosi ci saranno altri scossoni in itinere, ma questa ripartenza ci fa ben sperare che il teatro, la musica e la voglia di fruirne, prevarrà ancora su qualunque altra forza demolitrice si affacci all’orizzonte. Buon autunno all’opera a tutte e tutti.