Nel giorno del Global Strike for Future, c’è chi si affanna a scaricare le colpe sui comportamenti individuali e sui Paesi in via di sviluppo che rivendicano il diritto di inquinare per arricchirsi. Analisi che non tengono conto del modello di sviluppo imposto e propagandato, da cui sembra impossibile uscire.

per Salvare l’Ambiente servono misure drastiche

Proprio nella giornata in cui milioni di persone, anzitutto giovani, scendono in strada per dare la sveglia ai potenti del mondo, intimando loro di agire per contrastare i cambiamenti climatici, fioccano analisi che fanno le pulci al discorso di Greta Thunberg, la 16enne svedese che, col suo esempio, ha innescato la protesta planetaria.
Non senza una velata dose di paternalismo nei confronti di una ragazzina, talora definita una sorta di ingenua dai buoni propositi, le argomentazioni contro i suoi discorsi mirano a restituire una complessità del problema maggiore e ad individuare bersagli diversi da quelli indicati dalla studentessa svedese.

Sono due le principali tesi di queste analisi e, se lette decontestualizzandole dai processi economici, politici e sociali mondiali, hanno un loro senso.
Da un lato si osserva che oggi il maggiore freno agli impegni dei governi per contrastare i cambiamenti climatici è rappresentato dai Paesi in via di sviluppo, le cui economie decollano dopo decenni di vittimizzazione coloniale e sfruttamento delle loro risorse. Questi Paesi rivendicherebbero (in modo assolutamente legittimo, aggiungo io) il loro diritto a sviluppare ricchezza ed uscire dalla povertà.

Dall’altro lato si sottolinea come i comportamenti individuali potrebbero incidere molto nella riduzione dell’impatto negativo dell’essere umano sul clima, ma – questa è la tesi – le persone sono pigre e maldisposte a cambiare le proprie abitudini.
Ho letto argomentazioni che richiamano anche uno schema tanto in voga oggi, quello del popolo contro le élite. Una rappresentazione stereotipata che vorrebbe una classe dirigente impopolare, ma attenta all’ambiente, imporre misure ecologiste maldigerite; mentre il popolo avrebbe portato al potere proprio quelle forze politiche che hanno meno a cuore le ragioni dell’ecologia.

Richiamare ad una vera complessità del tema e poi sintetizzare in modo così stereotipato e lontano dal vero la realtà, però, suggerisce la fallacia del ragionamento.
È vero che una fetta di popolazione (non tutto il popolo) a volte insorge contro misure (spesso solo palliativi, ad essere onesti) che andrebbero nella direzione del rispetto dell’ambiente. Lo abbiamo visto con l’introduzione del pagamento dei sacchetti biodegradabili al supermercato.
Uscendo dall’Italia, troviamo esempi di proteste nate con rivendicazioni anti-ecologiche, come quella dei gilet gialli, che hanno manifestato contro il rincaro dei carburanti fossili.
Basterebbero questi due esempi, opportunamente estrapolati dal contesto, a confermare la tesi secondo cui il popolo è il vero responsabile dei cambiamenti climatici.

Prima di arrivare al punto, però, vale la pena citare un altro paio di esempi che raccontano una realtà diametralmente opposta. Prendiamo una risorsa fondamentale: l’acqua. Dopo anni di campagne per il risparmio e, anche grazie alla crisi economica che ha portato ad una riduzione dell’uso industriale, circa un decennio fa in alcune zone d’Italia si registrò un sensibile calo del consumo idrico. Un po’ i diffusori di flusso installati nelle abitazioni dai singoli cittadini, un po’ il calo industriale, hanno raggiunto l’obiettivo al centro delle campagne di sensibilizzazione di quelle élite che qualcuno dipinge come illuminate.

La conseguenza, però, fu un apparentemente paradossale aumento delle bollette. Come spiegare tutto ciò? Il popolo aveva ridotto gli sprechi di un bene fondamentale ma, oltre a preservare l’acqua, si sarebbe aspettato anche un risparmio economico.
Ciò non è avvenuto perché il meccanismo economico, messo in piedi da quelle stesse élite sedicenti illuminate, per la gestione del bene primario era (ed è) un meccanismo speculativo finanziario. Avendo trasformato le multiutility ambientali in società per azioni quotate in borsa, si è posto il problema della remunerazione del capitale. Calando i consumi gli utili si sono assotiliati e gli azionisti rischiavano di rimanere a bocca asciutta. Ecco spiegato il rincaro delle bollette.

Nel 2011 una consistente fetta del popolo italiano andò a votare due quesiti referendari che, in sostanza, sostenevano che quel meccanismo speculativo non doveva essere applicato ad un bene fondamentale come l’acqua. Il popolo (ben 27milioni) preferì l’ambiente al profitto. Sono passati 8 anni e quel referendum è rimasto disatteso. Le élite illuminate ed ecologiste hanno preferito remunerare il capitale.

Un altro esempio riguarda il tema che divide l’attuale governo giallobruno italiano: il Tav. Negli ultimi tempi qualcuno ha provato a sostenere che costruire la linea Torino-Lione risponderebbe a criteri ecologici per quanto riguarda la mobilità. Il treno è senza dubbio più ecologico del trasporto su gomma. Peccato, però, che una linea ferroviaria su quella tratta esista già, che sia ben lontana dalla saturazione, e che abbia l’unico “difetto” di non essere adatta a treni veloci per persone facoltose che si muovono per affari.
Vendere il Tav come scelta ecologista è una mistificazione bella e buona e lo è per le ragioni elencate e per tantissime altre che, chi ha minimamente studiato la storia, dalla genesi ai giorni nostri, di quel progetto non può far finta di ignorare.

Sulla mobilità sostenibile ci sarebbero da aggiungere un paio di considerazioni. Se i governi che si sono succeduti nei decenni dal Dopoguerra ad oggi hanno infrastrutturato il Paese per il trasporto su gomma, mettendo in secondo piano e spesso disincentivando il trasporto su ferro, non si può sostenere che sia il popolo che vuole muoversi comodamente ed egoisticamente con la propria autovettura.
Tanto più, ed ecco il secondo punto, se la retorica propagandistica che viene agitata ancora oggi spinge per la realizzazione di grandi opere pensate per il trasporto su gomma.

Si prenda l’esempio dell’Emilia Romagna. Di fronte allo stop da parte del Ministero delle Infrastrutture ad alcuni progetti, come il Passante di Bologna, la Bretella autostradale Campogalliano-Sassuolo e l’autostrada regionale Cispadana, i vertici delle istituzioni locali, con l’appoggio degli industriali e, ancor peggio, dei sindacati confederali, hanno protestato in una sorta di “cemento pride”.
Due le argomentazioni più ricorrenti che si leggono. Da un lato la realizzazione di nuove autostrade fluidificherebbe il traffico, facendo diminuire l’inquinamento, dall’altro si creerebbero posti di lavoro.
Possiamo dire che la cultura politica alla base di questi ragionamenti possa appartenere ad una élite illuminata ed ecologista?

A tentare di bloccare progetti di questo tipo non sono solo le opposizioni politiche, ma spesso sono comitati di cittadini, quel popolo che si disinteresserebbe dell’ambiente. Gli stessi cittadini che vengono insultati come retrogradi, affetti dalla sindrome Nimby (Not In My Back Yard), ostacolo del progresso.
Certo, il lavoro individuale da fare è tantissimo, ma non si può pensare di scaricare la colpa della situazione climatica globale sulle persone, dal momento che queste sono inserite e inquadrate in un modello di sviluppo ben preciso, che è stato imposto e propagandato con ogni mezzo.

È vero, le persone potrebbero acquistare prodotti più sostenibili, come il biologico. Ma è difficile farlo se costano un occhio della testa e il lavoro è sempre più precario e gli stipendi sempre più magri. È ancor più difficile farlo se, invece che rifornirsi dal piccolo produttore agro-sostenibile, gli si consiglia caldamente di fare acquisti nei grandi centri commerciali, costruiti sotto le loro case e moltiplicatisi come funghi grazie al placet urbanistico di quelle élite illuminate ed ecologiste.

È vero, le persone potrebbero muoversi in modi più rispettosi dell’ambiente. Ma in assenza di un trasporto pubblico capillare e soprattutto intermodale, l’odissea che spesso rappresenta spostarsi con mezzi più sostenibili rende difficilissimo alle persone, soprattutto quelle che non vivono nelle grandi città, fare questa scelta. È ancor più difficile farlo se, con la scusa di creare lavoro o risolvere i problemi di traffico, gli si costruiscono sempre strade nuove sotto casa.

Gli esempi potrebbero essere infiniti, ma il punto è solo uno: l’analisi di Greta Thunberg è corretta e chi la critica finge di dimenticarsi il modello di sviluppo, il sistema economico speculativo e predatorio in cui viviamo.
La colpa non è dei comportamenti individuali anti-ecologici, ma di chi li professa e rende molto più anti-economico (nell’economia complessiva della vita di ciascuno) fare scelte sostenibili. Se l’alternativa è puramente nominale, non si può pretendere di richiamare le persone alla propria responsabilità.
La colpa non è dei Paesi in via di sviluppo che ora vogliono inquinare per arricchirsi, ma è di chi li ha tenuti nella povertà e nella schiavitù fino ad oggi. Va comunque fermata la loro economia climalterante? Vengano restituite loro le ricchezze sottratte in decenni di colonialismo: magari qualcuno deciderà di abbandonare un’economia fossile e nociva.

Semplificando un po’, la colpa della situazione in cui ci troviamo è del capitalismo e di quei modelli affini che fanno della predazione delle risorse, del profitto a qualunque costo, dell’accumulo di ricchezze, dello sfruttamento dell’ambiente (e degli esseri umani), delle disparità le loro modalità di intervento.
La stessa green economy tanto evocata, se non prevede lo scardinamento delle logiche alla base del modello produttivo, rischia di essere semplicemente green washing, ma tenderà a riprodurre le stesse dinamiche. Potrà metterci a posto con la coscienza, ma non si rivelerà risolutiva.
Per una svolta reale nel mondo sotto il profilo climatico forse occorrerebbe abbattere questo modello, occorre abbattere il capitalismo.
Greta lo ha capito. E voi?