I movimenti li chiamano “lager etnici”, la politica invece ha cambiato più volte sigla: Cpt, Cie, Cpr. Le strutture di detenzione amministrativa, dove cioè i migranti non vengono reclusi per un reato penale ma per un illecito amministrativo, hanno una storia ventennale, in cui l’Italia è protagonista in negativo. L’avvocato Guido Savio dell’Asgi ce ne ricostruisce la storia giuridica.
La Commissione europea si appresterebbe a raccomandare agli Stati membri la detenzione di migranti da rimpatriare e la notizia riaccende i riflettori sull’aspetto più disumano delle politiche migratorie europee.
Le strutture di detenzione amministrativa, che in Italia si apprestano a cambiare nome, passando da Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) a Cpr (Centri permanenti per il rimpatrio), hanno una storia lunga, fatta di violenze certificate e lotte contro la loro esistenza.
I campi di detenzione amministrativa per i migranti
Già dal 1998, anno della loro istituzione nel nostro Paese, i movimenti antirazzisti hanno definito “lager etnici” i posti dove i migranti venivano reclusi senza che avessero compiuto reati penali, ma per un’irregolarità amministrativa.
La loro istituzione in Italia, come ricorda l’avvocato Guido Savio dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, fu opera della legge Turco-Napolitano, dal nome dei due estensori, tra cui spicca il presidente emerito della Repubblica.
Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) fu il nome originario in Italia e inizialmente il trattenimento previsto per chi vi veniva recluso non doveva superare i 30 giorni.
“Nel corso degli anni i tempi di reclusione sono aumentati – ricorda Savio – Prima a 30 più 30 giorni, quindi 60, poi ad un anno, poi a un anno e mezzo, per poi ridursi a 90 giorni”.
Nel frattempo, in particolare durante il governo Berlusconi, quando ministro degli Interni era il leghista Roberto Maroni, i Cpt divennero Cie. Ora, con il dl Minniti in attesa di approvazione, le strutture dovrebbero nuovamente cambiare nome in Cpr.
Ma qual è stata la storia giuridica di questi dispositivi di limitazione della libertà personale? Su quali basi normative si fondano? L’esponente di Asgi ci riassume le leggi, i provvedimenti e le pronunce che hanno reso possibili queste strutture.
“Nel 2001 ci fu un’importante sentenza della Corte Costituzionale – ricorda Savio – che stabilì la legittimità della detenzione amministrativa, purché fosse conforme ai casi previsti dalla legge e purché vi fosse stato un attento controllo giurisdizionale”.
Dal 2004 la materia è passata di competenza ai giudici di pace, figure che non si occupano di questi temi in via ordinaria ed esclusiva. “Vengono pagati a cottimo – sottolinea l’avvocato – offrendo meno garanzie rispetto ai magistrati togati”.
L’Europa è intervenuta sul tema ormai nove anni fa, con la direttiva 115/2008. “Per certi versi quella fu definita ‘direttiva della vergogna’ – osserva l’esponente di Asgi – perché innalzava i tempi di detenzione ad un anno e mezzo”. Tuttavia, la direttiva prevedeva il trattenimento del migrante come ipotesi residuale, che doveva essere preceduta da provvedimenti come la concessione di termini (da 7 a 30 giorni) per la partenza volontaria, l’incentivazione del rimpatrio volontario o altre misure meno coercitive.
Nell’impianto europeo, dunque, la detenzione amministrativa era considerata l’ultima istanza, l’eccezione.
Nel recepimento italiano della direttiva, avvenuto con la legge 129/2011, in realtà si è operato un ribaltamento della direttiva stessa. “Si è fatto finta di recepire la direttiva – spiega Savio – facendo diventare il trattenimento la regola e la partenza volontaria l’eccezione“.
Ciò, del resto, è stato reso possibile anche perché la formulazione dell’articolo 13 della Costituzione, quello che si occupa di limitazione delle libertà personali, rimanda ad una legge in materia. Se la legge è pessima, vale comunque quella.
“Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale – recita l’articolo costituzionale – né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge“. Dunque la legittimità della detenzione amministrativa è garantita dalla legge che l’ha prevista.
In realtà, alcuni profili di illegittimità sono presenti nelle modalità di attuazione della legge.
“La Costituzione parla anche di modi in cui deve avvenire la restrizione della libertà – sottolinea Savio – ma la legge non prevede nulla in questo senso, rimandando a regolamenti gerarchicamente inferiori”.
Inoltre, negli attuali Cie non è l’autorità giudiziaria, come dovrebbe essere, a stabilire la restrizione della libertà, ma essa si limita a convalidare provvedimenti presi dalle autorità di pubblica sicurezza, le quali dovrebbero invece avere solo potere propositivo.