A cinque anni dall’approvazione della legge 205/2017 che avrebbe dovuto rendere definitivi il riconoscimento, la regolamentazione e la tutela del mestiere dell’educatore, con l’aiuto di Vanna Iori, pedagogista, che di quella legge fu ispiratrice e prima firmataria, proviamo a tracciare un bilancio, parametrandolo al contesto attuale.  Che il saldo di tale bilancio sia negativo, ci pare evidente:  basti pensare che a fronte di un notevole allargamento della richiesta (i posti di lavoro ci sono, eccome) non c’è un numero corrispettivo di operatori disposti a sopportare ancora condizioni di lavoro il più delle volte degradanti. E i servizi chiudono, oppure non aprono, in particolare quelli sui minori che pur dovrebbero godere di una protezione di tipo giuridico.

Gli educatori legittimamente fuggono da un mestiere sottopagato e contrattualmente fragile. Si spostano verso tipologie di contratto con una retribuzione più significativa e un riconoscimento professionale più appagante, basti pensare al travaso pressoché costante di lavoratori dal privato sociale al mondo della scuola. Intendiamoci, non è solamente un problema di inadeguatezza della retribuzione, la questione è più ampia: c’è un vero e proprio problema di riconoscimento culturale della dignità professionale dei mestieri di cura in generale e di quello dell’educatore in particolare. E lo svilimento dei lavori di cura porta inevitabilmente all’irrisione del concetto di solidarietà, a una contrazione dello spessore civile di una collettività.

Una delle risposte legislative possibili per tentare di ricucire un tessuto sociale mai così smembrato come quello presente, era contenuta nella proposta di legge sulla Comunità Educante, presentata dalla stessa ex parlamentare ai tempi del secondo governo Conte.

Ma che fine ha fatto quella proposta, una volta caduto quel governo? Quali margini di manovra legislativi sulle tematiche educative ci sono all’interno dell’attuale parlamento?

Intervista a Vanna Iori

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