È la prima tappa del viaggio nell’universo di Calvino, in occasione del suo centenario dalla nascita: da oggi martedì 27 giugno a venerdì 29 saranno pubblicate interviste a critici e critiche letterarie per approfondire aspetti meno conosciuti dello scrittore. Oggi è la volta del suo rapporto con la parola, ben più complesso e conflittuale di quanto ci si potrebbe aspettare; ne abbiamo parlato con Mario Barenghi, saggista, professore di Letteratura Italiana Contemporanea e curatore dell’edizione dei Saggi di Calvino per i Meridiani Mondadori.
L’intervista a Mario Barenghi per i cent’anni di Calvino
A Calvino scrivere non veniva facile. Esprimersi — scegliere parole precise da mettere in fila per formulare periodi da mettere a loro volta in fila — era per lui uno sforzo enorme: «Io in fondo odio la parola per questa genericità, per quest’approssimativo. Adesso sento che le parlo e che dico cose generiche e ho un senso di ribrezzo per me stesso», raccontava lo scrittore a Marco D’Eramo nel 1979. «La parola è questa cosa molle, informe, che esce dalla bocca e che mi fa uno schifo infinito. Cercare di far diventare nella scrittura questa parola, che è sempre un po’ schifosa, qualcosa di esatto e di preciso, può essere lo scopo di una vita».
La produzione letteraria e saggistica di Calvino si delinea sin dagli albori come un esplicito tentativo di dare un senso al caos del mondo, di definire e trovare un posto per ogni cosa. Se Calvino è stato uno scrittore prolifico, non lo è stato nonostante odiasse la genericità della parola, bensì proprio perché la odiava, e voleva farla diventare qualcosa di esatto e preciso. Anche per questo era profondamente autocritico, e dubbioso che un’opinione – per quanto informata – potesse effettivamente contare qualcosa in quel marasma che iniziava a sembrargli l’opinione pubblica alle soglie degli anni Ottanta. E così, molti di quei tentativi di dare una rappresentazione precisa e fedele della realtà non sono mai stati completati, pubblicati, oppure sono semplicemente poco conosciuti.
Secondo il professore Mario Barenghi, «Ci sono testi fondamentali di Calvino che non appartengono ai libri più noti. Penso a raccolte di saggi come Una pietra sopra e Collezione di sabbia, ma anche a racconti mai pubblicati come La strada di San Giovanni, Dall’opaco, La decapitazione dei capi». Poi aggiunge: «Forse, però, bisognerebbe anche prestare attenzione ai tentativi che Calvino lascia a metà. Leggendolo, bisognerebbe rendersi conto che non tutto quello che ha fatto gli è riuscito, e almeno tre libri non ha voluto pubblicarli». A conferma, valuta il professore, di una coscienza autocritica molto acuta.
Calvino, però, ha cercato di approcciarsi al suo rapporto conflittuale con la parola anche da un altro punto di vista. Alle soglie degli anni Settanta, entrato in contatto con la teoria della “morte dell’autore” del filosofo Roland Barthes, inizia infatti a riflettere sulla possibilità di sbarazzarsi dell’autore, ipotizzando che una macchina possa prendere il suo posto: un calcolatore che fabbrichi racconti. Questo ridimensionamento – anzi, quasi cancellazione – della figura dell’autore è soprattutto funzionale a responsabilizzare il lettore, ma è anche espressione di una genuina difficoltà da parte di Calvino: “Come scriverei bene se non esistessi!”, si lamenta infatti il suo alter ego Silas Flannery in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Ma alla fine, riflette Barenghi, «Il risultato è che non si può fare a meno dell’autore, perché la letteratura vive del rapporto tra lo scrittore e il lettore: una relazione interpersonale positiva in cui ciascuno impara dall’altro».
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Chiara Scipiotti