L’Arena del Sole piena all’inverosimile per “Bros” di Romeo Castellucci, la nuova produzione Societas in co- produzione con Kunsten Festival des Artes Brussels. Uno spettacolo duro, violento, fatto di gestualità e suono che riflette e fa riflettere sulla dimensione rituale, corporativa, delle forze dell’ordine che prevede l’esecuzione di ordini senza discussione, come offerta devota all’autorità.

All’ingresso viene consegnato a ogni spettatore/trice un manifesto A3 nero scritto a caratteri bianchi con “l’indice di comportamento consegnato a ignari partecipanti”, una sorta di manuale per diventare poliziotti per il tempo dello spettacolo, comprendendone le regole di base a cominciare dall’essere disposti a eseguire tutti gli ordini per potersi chiamare un vero poliziotto ed eseguirli al meglio delle proprie possibilità e capacità anche se sembreranno risibili, o non vengono compresi. Prima e dopo gli ordini è prevista l’immobilità, nessun gesto spontaneo, rilassato è concesso a un vero poliziotto.

Questo codice di comportamento è pefrettamente incarnato dai 30 poliziotti in divisa che di lì a poco invaderanno la scena commettendo terribili violenze rimanendo impassibili e concedendosi solo brevi momenti di esultanza tra commilitoni per uno scatto fotografico che immortali la loro prestanza fisica.

Le scene mimiche dei poliziotti arrivano dopo un lungo tempo in cui il palco è stato prima occupato, a luci di sala accese, da mitragilatrici che sparavano roteando e provocando un terribile frastuono e poi, dalla semioscurità è apparsa una figura vestita con una lunga tunica bianca con la barba e in mano un ramo frondoso. Questa figura doveva impersonare Geremia che, probabilmente in aramaico, narra l’oracolo ricevuto dal Signore che gli intima di fuggire in Babilonia. Tutto il discorso pronunciato da Geremia è stato consegnato ai e alle presenti in traduzione stampato su di un foglio nero custodito all’interno dell’altro manifesto ricevuto prima di entrare in sala a cui ho già accennato. La citazione biblica di Geremia è anche l’unica parte parlata dello spettacolo, per il resto interamente mimico, gestuale e intessuto di suoni: rumori forti, spari,grilletti di pistole, macchinari, rumori tanto potenti da far tremare i palchi del teatro, da risuonare nel petto, così da creare ansia e smarrimento in aggiunta alle scene di tortura a cui si assiste, per quanto sumulata e teatralizzata.

Saltuariamente, in realtà, si sente una voce che pronuncia dei “motti” in latino, mentre pesanti teli neri, che riportano il motto che viene pronunciato, calano dall’alto o vengono srotolati da alcuni poliziotti.

Il primo di questi motti “non puoi dire al passato cosa fare” ci fa comprendere come la vita di un militare si svolga in un eterno presente. Non esiste la narrazione del passato, nè proiezione nel futuro. Non c’è analisi dell’azione che si sta compiendo con calcolo delle conseguenze per sé, per colui o colei che la subisce, nè tantomeno analisi del passato per imparare dagli errori, o dagli orrori, commessi nei secoli. L’ordine vive al presente, all’imperativo presente. Non è prevista alcuna creatività. Non c’è autonomia di giudizio. “Non sanno che fare? Allora copiano” dice un altro motto. E così se si sta massacrando di botte qualcuno, per imitazione, anche chi non ha ricevuto l’ordine, sa cosa è “giusto” fare in quel momento.

Lo spettacolo è sicuramente efficace, raggiunge il suo scopo di provocare una riflessione sulla responsabilità del singolo e di un collettivo rispetto all’esecuzione di ordini ricevuti. Evidenzia la dimensione rituale, gregaria all’interno di forze dell’ordine, di forze speciali elitarie. Guardando il gruppo di poliziotti inneggianti il loro capo supremo, o il loro idolo, la loro divinità, nelle fattezze di un fantoccio, a manganelli alzati, ciascuno/a dei presenti ha sicuramente pensato a qualche filmato reale del passato o del presente con gruppi di “fanatici” in divisa inneggianti allo stesso modo, armi in pugno.

La scena più angosciante di tutte, paradossalmente, non è tanto una delle scene di tortura, ma la scena finale di passaggio del testimone, ovvero del manganello, a un bambino, in tunica bianca con tanto di distintivo già appuntato sul petto. Biondo, ariano, orgoglioso con il suo manganello appena ricevuto in dote, il bambino perpetua la spirale di violenza, non c’è scampo: quella mentalità maschilista, patriarcale, guerrafondaia che prevede l’obbedienza senza discussione, senza alcun pensiero rispetto alla morale, all’etica vince e si riproduce “De pullo et ovo”, del pulcino e dell’uovo.

Data la carica violenta e angosciosa dello spettacolo non è certo quello più godibile ed entusiasmante della Societas. Se nella memoria resta la piacevolezza e il divertimento intellettuale di aver asistito, anni orsono, ad un’indimenticabile Orestea o al complesso Giulio Cesare, questo spettacolo resterà indelebile per le sensazioni spiacevoli che ha provocato e che desiderava provocare, non certo per difetto registico o per imperizia dei mimi in scena, ma per l’orrore narrato che è purtroppo parte del nostro presente, un certo grado di violenza a cui tante serie tv ci hanno abituati/e, violenza che fa capolino poi nei telegiornali e che si tramanda di padre in figlio.

Anche la recente svolta internazionale di ritorno al rombare delle armi sembra precipitarci in un analogo baratro fatto di violenza che perpetua violenza.