È passato quasi un anno da quando nelle carceri italiane si manifestarono rivolte dei detenuti connesse all’inizio della pandemia. Erano infatti i primi giorni di marzo quando, negli istituti di pena di diverse città italiane, le persone recluse iniziarono drammatiche forme di protesta, incendiando materassi, salendo sui tetti e barricandosi all’interno.
15 morti fu il tragico bilancio di quelle giornate, con tentativi di archiviare velocemente quei fatti da parte delle istituzioni carcerarie che non sempre hanno incrociato la posizione della magistratura. Diverse, infatti, sono le inchieste aperte nel tentativo di vederci chiaro.
Per ricordare quei fatti e sviluppare una riflessione ad un anno di distanza, “Liberi dentro – Eduradio“, la trasmissione sul carcere in onda sulle nostre frequenze ogni giorno alle 9.00, ha intervistato Mauro Palma, già presidente dell’Associazione Antigone e attuale Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Palma ha recentemente incontrato la neo-ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per affrontare alcuni nodi irrisolti che riguardano il mondo delle carceri.
Carceri, un anno dopo le rivolte: l’intervista al garante nazionale
Siamo quasi a un anno dalle rivolte scoppiate nelle carceri, quale lettura ne dà lei oggi?
«La prima lettura che do è che guardo con un certo sgomento come l’intellettualità italiana, il mondo culturale e quello istituzionale abbiano archiviato con grande facilità una situazione che invece è drammatica per il numero di morti che non si era registrato nelle vicende passate. Questo, prima ancora della questione dell’accertamento di responsabilità su cui ho piena fiducia nella magistratura. E credo anche che tutti sappiano che c’è un punto di controllo dal garante nazionale che ha nominato un proprio avvocato, un proprio perito. Ma prima ancora dell’accertamento giudiziario, questo ci deve far riflettere perché è stato un brutto segnale inviato al mondo detentivo, quasi questo sia un mondo a parte, rispetto al quale anche se si muore c’è un disinteresse della collettività».
Lei ha detto «è un po’ mondo a parte». Come sta vivendo questa fase storica della pandemia sul fronte dei diritti del quale lei è chiamato ad essere garante nazionale, e quali richieste urgenti porrà sul tavolo del nuovo ministro della Giustizia, Marta Cartabia?
«Il punto centrale attorno al quale ruotano le mie osservazioni, critiche e richieste alla nuova ministra della Giustizia, nasce dal fatto che non esistono mondi separati, che la collettività sociale è un tutt’uno e che il carcere deve tornare ad essere una parte della nostra società. Una parte problematica, che rappresenta la parte difficile del nostro corpo sociale, ma se non si esaminano le parti difficili si finisce col non riconoscere la positività della parte facile.
Certamente, poi, questa richiesta si articola in più punti. Con la senatrice a vita Liliana Segre abbiamo fatto una proposta pressante, e devo dire abbiamo avuto risposta positiva al fatto che la corporazione detenuta sia considerata al pari di tutte le altre collettività chiuse, come le residenze sanitarie e assistenziali. E quindi, vi sia data precedenza sui vaccini, e abbiamo ora assicurazione da parte del governo.
Ma accanto a questo c’è anche il problema, che sento di discutere ad esempio nei dibattiti televisivi, del rapporto tra giovani, scuola e non perdere la socialità.
Un problema a tutti i livelli è la scolarità del mondo detentivo. La scolarità del mondo detentivo in molti casi si è interrotta, e accanto si è interrotta anche quell’elemento positivo del nostro sistema penitenziario che è il fatto di avere un grande volontariato, grande attività sociale, che entrano nelle carceri. Se perdiamo questo, che è quasi l’unico valore aggiunto che ha il nostro sistema, ci rimangono soltanto dei corridoio vuoti, delle celle che in realtà spesso non sono neanche adeguate agli standard nazionali ed internazionali».
La pandemia ha portato anche gli smartphone per il diritto dei detenuti a contattare i propri familiari. Ma quali altri sviluppi si possono immaginare per l’utilizzo delle tecnologie, che non si era mai pensato prima, per le telecomunicazioni e anche per la scuola online?
«Io ho avuto pochi giorni fa un incontro con una capo dipartimento delle Risorse del Ministero dell’Istruzione relativamente al problema della continuità della formazione, e avremo un incontro operativo attorno al 17.
Bisogna dotare le aule scolastiche carcerarie della strumentazione che possa andare incontro a questa esigenza, e prenderla come un’occasione per ricordare un punto: la scuola e l’università in carcere non sono degli invitati aggiunti, sono degli attori essenziali. Non sono delle persone più o meno tollerate, come degli ospiti che prima o poi se devono andare. Sono uno degli elementi essenziali, e il dialogo che avviene tra l’istituzione scolastica e il ministero della giustizia deve essere un dialogo inter istituzionale, non di chi è il padrone di casa e chi è temporaneamente lì dentro.
Devo dire che ho trovato molta sensibilità nel Ministero dell’Istruzione. Si tratterà di fare una pianificazione e capire che non è che tutti gli indirizzi scolastici possono essere attivati in tutti gli istituti penitenziari. Si dovrebbero fare degli istituti in cui si sa anche qual è l’offerta formativa, ed eventualmente i detenuti che vogliono seguire quei corsi essere trasferiti in quegli istituti, e seguire i corsi. È un ragionamento che stiamo un po’ avviando».
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