Se Naomi Klein, che spesso ha saputo preconizzare o fotografare le dinamiche del mondo, afferma che la cura è il concetto e la pratica più radicale che abbiamo a disposizione oggi, forse rifletterci per qualche minuto potrebbe essere utile. È quello che fa, in modo diffuso, il “Manifesto della cura” di The Care Collective, da poco tradotto e pubblicato in Italia da Edizioni Alegre.
Un gruppo di accademiche e accademici britannici sono intervenuti su uno dei temi centrali oggi, a maggior ragione con le dinamiche amplificate dalla pandemia, fino a proporre un’alternativa.
Cura, il Manifesto di The Care Collective
Nella versione italiana, il “Manifesto della cura” ha una prefazione di Sara R. Farris, sociologa e già autrice di “Femonazionalismo”, e una postfazione della giornalista e femminista Jennifer Guerra.
La traduzione, invece, è stata curata da Gaia Benzi e Marie Moïse, che è intervenuta ai nostri microfoni ad illustrare il libro.
Tutto parte dalla constatazione della “incuria” propria del neoliberismo e di come esso intende in senso mercificato la cura della persona, sia negli aspetti sanitari che psicologici e relazionali.
Era inevitabile, dunque, che la pandemia ufficializzasse la “crisi della cura“, che ha evidenziato le dinamiche assunte dal tema. Come sappiamo, la cura manifesta un fortissimo carico di genere, che grava sulle spalle delle donne, ma da tempo assistiamo anche ad una razzializzazione del fenomeno, che interviene anche in seguito a battaglie femministe nei contesti occidentali o comunque più ricchi e che lascia alle categorie marginalizzate, donne migranti in primis, l’incombenza di queste mansioni.
Ma la cura non è affatto ai margini e la pandemia lo ha dimostrato. Il lavoro di badanti, infermiere, lavoratrici domestiche, fattorini, rider e addetti alle pulizie è risultato centrale ed ha dominato per giorni la scena pubblica.
Nel sistema in cui viviamo, quello liberista, però, la cura viene relegata ad una questione individuale, da comprare sul mercato, con una progressiva privatizzazione dei servizi sanitari, sociali e alla persona che privilegia i profitti sulle vite di tutte e tutti noi.
Ecco perché il Manifesto sostiene invece la necessità di socializzare la cura, prendendo atto dell’interdipendenza delle persone, richiamata anche dal sottotitolo: “Per una politica dell’interdipendenza“.
Per arrivare all’obiettivo si analizzano alcune esperienze dal basso e si affronta il tema da quattro prospettive, quattro concetti chiave: il mutuo soccorso, agito anche ridisegnando il concetto di famiglia; lo spazio pubblico; la condivisione di risorse; la democrazia di prossimità. Ed è su quest’ultimo punto che si può rispondere alla fin troppo ovvia obiezione che potrebbe sorgere, in particolare circa il ruolo dello Stato che, in una prospettiva mutualistica dal basso, potrebbe sentirsi sollevato dai suoi compiti.
«Una ricomposizione sociale su altre logiche è fondamentale per mettere in campo delle alternative concrete – spiega ai nostri microfoni Moïse – Anche ora, in vista dell’arrivo dei soldi del Recovery Fund, assistiamo alla retorica secondo cui aiutare dall’alto sia rendere le persone dipendenti dallo Stato, sia renderle fannullone e svogliate, perché dove lo Stato c’è le persone non si attivano. Invece è vero il contrario: dove lo Stato c’è può sostenere dall’altro i processi di autonomia e indipendenza delle persone, che al contrario si trovano in difficoltà dove lo Stato è assente».
Attraverso comunità di cura, interdipendenti e democratiche, dal basso può arrivare una spinta verso l’alto ad indurre lo Stato a finanziare la sanità, la scuola o la rigenerazione dello spazio pubblico. In questo modo, prendensoci cura reciprocamente di noi, dunque, si può contrastare la narrazione ideologica tossica sull’interdipendenza delle persone.
ASCOLTA L’INTERVISTA A MARIE MOÏSE: