Il Direttore d’Orchesta Michele Mariotti al suo primo Puccini collabora per questa messa in scena bolognese col regista inglese Grahan Vick al suo quarto riallestimento di Bohème e portano in scena una compagnia giovane, capace di lavorare in ensemble per un risultato scorrevole e di grande impatto musicale e teatrale.

La Bohème presentata dal direttore musicale Michele Mariotti e dal regista Grahan Vick è uno spettacolo vivace, che scorre quasi in un unico flusso tranne un breve intervallo tra secondo e terzo quadro e una pausa tecnica rapidissima prima del quarto. Nessun allestimento sfarzoso e inutilmente costoso, bensì un scenografia agile, che si monta e smonta velocemente in un ambientazione contemporanea in una casa di studenti che potrebbe trovarsi in qualunque città universitaria come la nostra, con mobili di risulta che addirittura spariscono nell’ultimo quadro, venduti dai giovani scialacquatori per tirare a campare. Il Quartiere latino in festa per la vigilia di Natale è rappresentato come in un musical: una strada affollata di fronte ai caffè e negozi cittadini. la Barriera d’Enfer del terzo quadro è un vicolo di spaccio con le serrande chiuse dei negozi riempite di tag, un vicolo come tanti visibili appena fuori dal Comuale.

E’ un gran vanto dell’allestimento l’aver scelto scene scarne e costumi, anch’essi a cura di Richard Hudson, che potrebbero essere presi dal quotidiano guardaroba di qualunque studente in qualsivogli paese del mondo. Non è questa tuttavia la sola nota di merito dello spettacolo che volge in dramma solo alla fine ponendosi per i primi due quadri quasi come un opera comica, volendo raccontare l’esuberanza della vita, della giovinezza, il piacere del vivere alla giornata nutrendosi di cultura e d’amore.

Sia il direttore d’orchesta che il regista hanno voluto affermare con forza che quest’opera pucciniana parla soprattutto di irrefrenabile desiderio di vita e che in essa la morte si pone come conseguenza di una condizione sociale, quella della povertà, che affligge molti giovani precari anche del tempo presente, piuttosto che frutto di scelte di vita dissolute.

Vick in particolare ha voluto parlare al pubblico contemporaneo raccontando la vita di una compagnia di sei amici che scansano le responsabilità dell’adultità fino a quando non si trovano a fare i conti con qualcosa di ineluttabile, inprorogabile come la morte della loro amica o amante Mimì. Di qui la scelta del finale opposto a quanto indicato dalla didascalia pucciniana: non è Rodolfo a scuotere e a gettarsi sul corpo esanime di Mimì, ma è il peso morto del corpo dell’amata a gravare, con l’ineluttabilità dell’accettazione delle responsabilità dell’amore e della vita adulta, sul giovane Rodolfo.

Applauditissima l’orchestra e il suo straordinario direttore Mariotti che ha convinto e conquistato tutto il pubblico in sala con ovazioni crescenti.  Se scene, costumi, orchesta e coro (è presente tra l’altro anche il coro dei bambini del teatro, fiore all’occhiello della sezione formazione interna al Comunale) sono elementi stabili dell’allestimento, occorre comunque porre l’attenzione sul fatto che ogni spettatore che si rechi a teatro sa che di sera in sera non vedrà mai lo stesso spettacolo anche se potesse vedere tutte le repliche di una tournée.

Al teatro d’opera in Italia questo è ancor più vero per il sistema del doppio cast che consente ai cantanti di riposare la voce a sere alterne e che, dopotutto, consente a cantanti giovani di farsi le ossa cantando in teatri di prim’ordine, con orchestre e cori di qualità, in allestimenti pregevoli alternandosi a colleghi più affermati.

Il primo cast di questa Bohème bolognese ha avuto l’onore della diretta radiofonica su Radio3 la sera della prima e il 25 gennaio la ripresa televisiva approderà su Rai 5 alle 21:15 dopo la proiezione nei cinema del 24.

Il secondo cast raramente appare nelle foto di scena disponibili per la stampa (in questo caso sono state fornite anche le foto del II cast) e ancor più di rado viene recensita la seconda replica.

Prendete questo articolo come un’esperimento, avrete poi possibilità di confrontare l’impressione qui riportata con quella che potrete farvi dal divano di casa in televisione tra qualche giorno, oppure alzandovi dal divano e afferrando l’occasione di un biglietto last minute al 50% al botteghino del Teatro Comunale a partire da mezz’ora prima delle repliche rimanenti consultabili sul sito del teatro.

Non di Nicola Alaimo o di Hasmik Torosyan, né di Mariangela Sicilia commenterò l’esecuzione, bensì dela compagnia del secondo cast che ha visto in scena Matteo Lippi come Rodolfo, Sergio Vitale come Marcello, Ruth Iniesta come Musetta e Alessandra Marianelli come Mimì.

Comincerò da quest’ultima, Alessandra Marianelli, che ha avuto dalla sua la giovane età, utile ad impersonare la “tranquilla e lieta”, se pur malata Mimì. Marianelli non convince affatto scenicamente, risulta legnosa nei movimenti, rigida, incapace di raccontare con piccoli gesti ed espressioni in particolare la malattia che la rode dentro e che avanza di momento in momento. Solo la cipria bianca in lei racconta il suo male, inespressivo il corpo e incolore la voce, per quanto formalmente corretta l’esecuzione.

Matteo Lippi come Rodolfo è applaudito dal pubblico che coglie la sua sincerità, la sua capacità di calarsi nel ruolo facendo ricorso sia all’esperienza personale di giovane che, gioco forza, per lunghi anni ha fatto la vita dello studente di musica, sia alla tecnica canora (davvero piacevole e convincente anche se manca il noto Do del primo atto), ed insieme alle capacità attoriali, riuscendo a proporre la figura complessa di un giornalista scupoloso, quanto squattrinato, desideroso di vivere appieno gli anni della giovinezza, anche al prezzo di rinunciare all’amore pur di non dover assumersi la responsabilità della malattia dell’amata.

Teatralmente riuscita l’interpretazione del baritono Sergio Vitale come Marcello, anche se a livello canoro si nota la pulizia e competenza insieme alla poca potenza, specie nei momenti di pieno orchestrale, che fa rimpiangere la presenza del sublime Nicola Alaimo.

Va segnalata la vocalità imponente e la presenza scenica invidiabile del basso Evgeny Stavinsky che impersona Colline in entrambi i cast, emozionante nella cellebre romanza “vecchia zimarra” del quarto quadro.

Completa il gruppo di amici bohèmiene Schaunard impersonato, senza cambi nel corso delle rappresentazioni, da Andrea Vincenzo Bonsignore (baritono), frizzante, dinamico, compiutamente in parte.

Nota di merito a Bruno Lazzaretti (basso) che interpreta in maniera divertente e impeccabile, anch’egli in tutte le repliche bolognesi,  sia l’attempato padrone di casa Benoît che il vecchio Alcindoro “cavalier servente” di Musetta nel secondo quadro.

Regina indiscussa della scena, vocalmente impressionante e teatralmente esuberante e perfettamente in ruolo è senz’altro Ruth Iniesta, Musetta, capace di esprimere la corda frivola e popolana, quanto quella intima e commossa davanti a Mimì morente nell’ultimo quadro, spiccando tra tutti come un faro nelle nebbie.

Quello che colpisce della rappresentazione è però il carattere corale, il lavoro di squadra compiuto dai giovani cantanti, ben guidati dal regista Vick da un lato e dal direttore Mariotti dall’altro, capaci di raccontare una storia di amicizie giovanili e di amori vitali nella quale fa capolino la dura realtà della vita adulta con i suoi dolori e le sue scelte.

Consigliata la visione anche delle rappresentazioni di questo, in fin dei conti, pregevole secondo cast, che solo in alcuni momenti lascia desiderare vocalità più mature e, solo nel caso di Marianelli, una maggiore presenza scenica.

Come ultima considerazione potrei suggerire al Teatro Comunale di immaginare una ripresa estiva in futuro di questo allestimento, realizzandolo non in sala, ma nelle sue immediate vicinanze, nelle strade cittadine attorno a Piazza Verdi, potrei immaginare un sicuro successo di pubblico per la capacità che Vick ha avuto di saper immaginare un’attualizzazione dell’opera pucciniana, non solo in termini scenografici, ma soprattutto in termini morali, esistenziali, avvicinando attorialmente quei giovani pieni di cultura e senza denaro ai ragazzi di oggi, pieni degli stessi sogni, con le stesse chimere, e le tasche ugualmente vuote senza un sostegno dai propri più o meno facoltosi genitori e spesso soli nell’affrontare le prove della vita.