Si io ero grunge e se ai tempi avessi dovuto scegliere tra Oasis e Blur avrei scelto i primi. Un po’ troppo fighetti e non tanto maledetti trovavo i quattro londinesi un po’ patinati rispetto al mondo “tossico-musicale” degli anni 90. Nonostante ciò ho i loro CD e coverizzavo Song2 in una band di amici. Siamo cresciuti tutti e, nel tempo, ho avuto modo di seguire sia i lavori da solista di Graham Coxon sia quelli di Damon Albarn (ottimo quello in cui collabora con i musicisti del Mali).

La recensione del concerto dei Blur

Detto questo il concerto reunion dei Blur a Lucca era imperdibile ed evidentemente lo abbiamo pensato in tanti. Il pit nei primi tempi era una cosa “figa” anche se ero contrario a questo “privilegio” ne ho fatto uso per i concerti a cui tenevo di più. Ora il pit è una necessità se vuoi vedere e sentire qualcosa, soprattutto in questi grandi eventi. Il problema è che se fai un pit non è etico stipare come bestie l’area dedicata a chi vorrebbe stare un filo meglio pagando un sovrapprezzo (c’ho un’età). Nella sofferenza per la mancanza dello spazio vitale e per il gruppo di supporto, tali Sounds Mint, paragonabili ai nostrani Maneskin ma in versione post punk (ormai pure il lattaio è post punk) osservo il popolo del rock. Il pubblico va dai nostalgici calvi e presbiti alle giovani generazioni. Le t shirt sono abbastanza variegate, molte quelle dei Cure, qualche metal, un paio di Daniel Johnston.

Alle 21.30 precise la scritta Blur, a caratteri cubitali, scende dall’alto di uno stage importante e, come per magia, la mia sofferenza svanisce nelle quasi due ore di concerto. St Charles Square (dal nuovo album The Ballad of Darren) apre il live al Lucca Summer Fest, ma è con There’s no other way che vengo catapultato negli anni 90, seduto al bancone di un pub con una Guinness in mano. Beetlebum la tengono un po’ per le lunghe e il pubblico sembra apprezzare la loro scelta. Poi ad un certo punto su Villa Rosie salta l’impianto (Welcome to Italy). Ma il quartetto non si scoraggia, concede tempo, e fortunatamente la situazione si risolve in tempi brevi, senza che la magia del concerto svanisca. Coffee & TV è sempre stato uno dei miei pezzi preferiti ed è eseguita da Graham Coxon in modo eccezionale, tanto da farmi vedere il cartoncino di latte del video che segue il sottoscritto.

Con Country House e Parklife capisco che il dono dei Blur è un po’ lo stesso dei Beatles, ovvero la capacità di catturare l’ascoltatore con semplicità senza nessun virtuosismo. Il culmine del concerto arriva (a mio avviso) con Song 2. Ne approfitto e, come over 50 nella categoria calvi e presbiti, mi abbandono a un pogo che mi consente di dare qualche gomitata a chi è arrivato da dietro e mi si è messo davanti, o a chi ha ripreso tutto il concerto con il cellulare (poi regaz ne dobbiamo parlare di sta cosa che ci è sfuggita di mano). L’encore tocca ancora una canzone del nuovo lavoro, e Damon Albarn e soci si ripresentano sul palco con Barbaric . Girls&Boys mi fa ritornare in quei locali bolognesi dove si ballava la musica alternativa al “tunz tunz” ma è con la corale Tender che mi rendo conto di quanto grandi siano stati e sono ancora i Blur, quando la folla ripete in coro il ritornello “Come on, come on, come on Get through it Come on, come on, come on Love’s the greatest thing” quando la canzone è terminata. (Ma allora se non siamo bestie perché ci trattano come tali nei grandi eventi?).

Negli anni 90 indossavo le camicie di flanella a scacchi e ascoltavo Kurt Cobain e soci, ma ieri, se a fine concerto avessi trovato la t shirt dei Blur, forse avrei lasciato i 40 euro al merchandising per un ricordo di una grande serata (regaz, dobbiamo parlare pure dei prezzi delle magliette). Per fortuna era esaurita.

Andrea Tabellini