L’industria di armi in Italia non produce particolari vantaggi dal punto di vista economico o lavorativo, ma al contrario viola costantemente l’etica e i diritti umani. Eppure nel nostro Paese (e non solo) rimane un dogma, al punto che i governi forzano, aggirano o trasgrediscono la legge 185 del 1990. A passare dei guai giudiziari, però, non sembrano essere coloro che esportano verso regimi e scenari di conflitto, ma coloro che cercano di fermare i traffici di morte, come sta accadendo ai portuali di Genova, finiti sotto inchiesta addirittura per associazione a delinquere.

Armi, l’analisi dei numeri è impietosa: il “gioco” non vale la candela

A mettere in fila i numeri sull’industria delle armi del nostro Paese, che anche il ministro della Difesa Lorenzo è tornato a difendere sostenendo la necessità di valorizzarla, è Francesco Vignarca della Rete Italiana Pace e Disarmo in un articolo pubblicato oggi sul Manifesto.
I dati citati da Vignarca sono impietosi. Il fatturato dell’industria delle armi si aggira sui 17 miliardi, meno dell’1% del pil italiano. Una cifra che cala se si considera l’export, per cui l’Italia è al decimo posto nella classifica mondiale. I circa 3,5 miliardi di esportazioni belliche del nostro Paese rappresentano appena lo 0,7% di tutto l’export made in Italy, che ammonta a 480 miliardi.

Non va meglio sotto il versante occupazione, spesso addotto in modo apologetico per soprassedere a questioni etiche. I dipendenti diretti dell’industria di armamenti sono appena 50mila, pari allo 0,21% dell’intera forza lavoro attiva in Italia. Se si considera anche l’indotto, che comunque non coinvolge lavoratori e lavoratrici esclusivamente nel settore, ecco che i 200-230mila occupati rappresentano appena l’1%.
Secondo uno studio statunitense, nel Paese a stelle e strisce per ogni milione di euro investito nell’industria delle armi si creano appena 7 posti di lavoro. Con la stessa cifra, invece, si creerebbero quasi 10 posti di lavoro nelle energie rinnovabili, 19 posti di lavoro nell’educazione di base o 14 posti di lavoro nella cura sanitaria.

E allora perché c’è una difesa così dogmatica di un settore piuttosto residuale? «È marginale per la collettività, ma è un settore molto vantaggioso per i pochi che ne detengono le leve – osserva Vignarca ai nostri microfoni – È vantaggioso dal punto di vista politico perché chi sostiene o favorisce l’industria degli armamenti fa carriera più facilmente, mentre chi cerca di controllarla non la fa». Il portavoce della Rete Italiana Pace e Disarmo sottolinea che quello degli armamenti non è un vero e proprio mercato, perché la produzione e la vendita spesso sono una scelta politica e chi è nel settore non deve nemmeno rendersi particolarmente competitivo a livello industriale.

Sul fronte normativo, invece, le istituzioni stesse o le fabbriche d’armi che aggirano la legge 185 del 1990, che vieta le esportazioni in zone di guerra o verso Paesi che non rispettano i diritti umani, non sembrano subire particolari ripercussioni giudiziarie. Su questo versante è ancora attiva l’inchiesta circa l’utilizzo da parte dell’Arabia Saudita di bombe prodotte in Italia ed utilizzate nel massacro di civili in Yemen. Il caso, che risale al 2016, nacque dal ritrovamento di residui bellici che riconducevano a materiale prodotto nello stabilimento sardo della Rwm Italia, azienda produttrice di ordigni collegata alla tedesca Rheinmetall.

Molto più solerte, invece, è l’azione giudiziaria nei confronti di cinque attivisti del Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) di Genova, indagati per associazione a delinquere, resistenza e attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti per aver bloccato, nel maggio 2019, la nave cargo battente bandiera dell’Arabia Saudita Bahri Yambu, carica di armi, attraccata a un terminal del porto di Genova. I portuali avevano bloccato l’ingresso degli ormeggiatori del porto, brandendo uno striscione con scritto: «Stop ai traffici di armi, guerra alla guerra». L’intento dello sciopero proclamato per quella giornata era impedire che si caricassero o scaricassero armamenti e strumentazioni accessorie che sarebbero stati impegnati per la guerra in Yemen.

«Nell’inchiesta sulle armi in Yemen – ricorda Vignarca – dovemmo opporci in appello alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero, che tra l’altro aveva condotto le indagini in modo farraginoso. Per fortuna la gip dispose che le indagini andassero avanti. Ma i pochi magistrati che in passato hanno iniziato ad indagare si sono dovuti fermare perché spesso veniva messo il segreto di Stato». Un approccio giudiziario molto diverso, insomma, da quello riservato ai portuali di Genova, per i quali, ironizza Vignarca, si cerca di capire se un fumogeno costituisca o meno l’associazione a delinquere.

ASCOLTA L’INTERVISTA A FRANCESCO VIGNARCA: