Dopo 14 anni dall’inizio della guerra, le forze occidentali lasciano l’Afghanistan, con i talebani ancora forti e una transizione difficile. L’intervista a Mujib Mashal, corrispondente del New York Times, che ci racconta cosa è cambiato dopo la guerra e qual è la situazione attuale del Paese.
La situazione in Afghanistan a poco dalla ritirata delle truppe occidentali
La presa di Kunduz di dieci giorni fa da parte dei talebani, la controffensiva governativa e il bombardamento dell’ospedale di Medici Senza Frontiere, che ha causato 22 morti, hanno riacceso i riflettori sull’Afghanistan.
Anche gli ultimi contingenti americani dovrebbero lasciare il Paese entro il 2016, sempre che gli scenari mediorientali non facciano cambiare idea a Barack Obama.
Per capire quali sono state le trasformazioni dell’Afghanistan in questi 14 anni dall’inizio della guerra, abbiamo intervistato Mujib Mashal, giornalista afghano, corrispondente del New York Times, intervenuto all’ultimo Festival di Internazionale a Ferrara.
Dopo 14 anni, che situazione ha lasciato, o sta per lasciare, l’occidente in Afghanistan?
“Penso che in questi 14 anni, da una parte, la gente abbia colto un’opportunità di progresso per andare in una qualche direzione ma, dall’altra parte, gli investimenti nelle istituzioni e nella sostenibilità non hanno fruttato quello che dovevano, perché non c’è stata una visione d’insieme e non c’è la volontà politica di occuparsi delle cause reali del problema. Il progresso ottenuto dalla gente è fragile, perché le strutture per mantenere gli spazi in cui si possa continuare a costruire una democrazia sostenibile non sono abbastanza forti. Queste strutture non sono state costruite con una visione. Così stiamo raggiungendo un momento in cui ci sentiamo abbandonati di nuovo dalla comunità internazionale in uno stato che non è stabile”.
Abbiamo visto una recrudescenza dell’avanzata dei talebani. Com’è la situazione da questo punto di vista, dal punto di vista della sicurezza? Qual è l’effettivo potere militare e di sostegno che hanno?
“Penso che quello che è successo negli ultimi giorni – l’invasione di Kunduz, una delle città principali dell’Afghanistan da parte dei talebani – dimostri che abbiamo bisogno di sostegno continuato, per esempio di supporto aereo. A fronte di 5, 6 o 7 anni di investimenti, l’esercito e la polizia afgani sono diventati una buona forza armata, considerando la loro recente creazione, ma non abbiamo nessuna capacità aerea, la nostra forza aerea è ridicola.
Ed è l’unica cosa che i talebani possano temere. Possono sostenere combattimenti nelle strade e sulle montagne, ma non possono fare nulla contro i bombardamenti. Dunque credo che la caduta di Kunduz sia un chiaro segno del fatto che abbiamo bisogno di aiuto, di supporto continuativo finché la nostra forza armata non sia maturata abbastanza da tenersi in piedi da sola, ma al momento è abbastanza chiaro che non è in grado di farcela”.
Nelle elezioni l’occidente ha avuto un qualche ruolo in termini di influenza o ingerenza sullo Stato e sul governo o si tratta di un governo propriamente locale, afghano?
“Purtroppo abbiamo avuto delle elezioni terribili, caotiche e fraudolente, che hanno raggiunto una situazione di stallo in cui gli Stati Uniti sono dovuti intervenire, quando entrambi i candidati rivendicavano la vittoria e abbiamo corso il rischio di avere due governi paralleli. Lì l’occidente è intervenuto e li ha uniti in un accordo di condivisione del potere. Quindi l’occidente effettivamente ha avuto un ruolo, ma c’è da dire che l’alternativa sarebbe stata la divisione del Paese.
La triste realtà è che avevamo pensato di aver avuto un anno difficile con le elezioni, ma di averlo superato. Avevamo creduto che questi due candidati avessero capito la gravità della situazione e che avrebbero messo da parte i loro battibecchi e le loro dispute, per concentrarsi sulle sfide, ma hanno dimostrato il contrario. Molta della loro energia viene spesa a battersi l’uno contro l’altro su nomine di governatori o capi di polizia, mentre le città e le province cadono. Cosicché, sai com’è, se la città cade non importa più chi ha il potere di nominare il capo di polizia, perché la città non c’è più. Purtroppo si sono rivelati essere così gretti e assorbiti dalla loro rivalità proprio quando il paese si trova di fronte a nuove sfide”.
Una delle ragioni che abbiamo sentito tra le giustificazioni dell’intervento in Afganistan riguardava la condizione delle donne e la loro emancipazione. C’è stato un cambiamento da questo punto di vista?
“Si e no. Si, nel senso che c’è stata una forte campagna, molti soldi sono stati spesi per i diritti delle donne, per cose tangibili come la salute e l’educazione delle donne. Questo sta dando risultati, per esempio riguardo ai tassi di mortalità, che stanno migliorando molto, o le donne che stanno ottenendo un’educazione, le ragazze che vanno a scuola. Questo è visibile nei dati ed è il lato positivo. Ma dall’altra parte, ciò è anche diventato molto dipendente dai progetti, è diventata una ragione per creare delle Ong e ottenere soldi, ma senza un compimento. L’indicatore è nella partecipazione politica delle donne, che è ancora molto bassa. Il nuovo presidente, il presidente Ghani, è stato molto coraggioso nell’affermare il proprio sostegno ai diritti delle donne, nel dire che appoggia la partecipazione politica delle donne. Sua moglie ha anche partecipato ad eventi pubblici e rilasciato discorsi, ma le promesse si stanno concretizzando troppo lentamente.
Ha promesso ministri donne. Ne abbiamo un paio ma non quante ne ha promesse; ha promesso vice ministri donne in ogni ministero, delle quali non c’è ancora traccia. Ha promesso di nominare un giudice donna alla corte suprema: l’ha nominata, ma non è stata approvata dal parlamento, e non ne ha ancora nominata un’altra.
In sostanza vediamo che dei passi sono stati mossi verso una maggiore partecipazione politica, ma purtroppo in parte questi passi sono stati vani perché è mancata una visione per il loro compimento. Se investi nell’educazione delle donne, ma non ci sono reali opportunità per loro a livelli più alti, una migliore educazione non significa nulla, ci deve essere una catena che prosegue fino in cima. A questo si sta lavorando solo adesso, perché questo nuovo presidente ci crede, ma non perché c’è una visione affinché questo accada passo per passo”.
Il ritiro delle forze dal paese avrà conseguenze di tipo economico? Pensi che ricadrà principalmente sui progressi sociali della gente?
“Assolutamente. Penso che le conseguenze si sentano già.
Ci sono più di 100mila forze straniere e, per ognuno di questi soldati, probabilmente due o tre afghani hanno ottenuto un lavoro come personale di ausilio, lavorando nelle basi o per società che riforniscono di cibo o di acqua le basi militari.
All’improvviso, nel giro di un anno, tutto questo viene a mancare. Quindi le conseguenze economiche si sentono già, non è qualcosa che riguarda il futuro, sta già succedendo, perché non c’è stato un disegno.
Tutti hanno previsto questo declino, il ritiro delle forze straniere, che non sarebbero rimaste per sempre, ma non c’è stato un piano per creare un’alternativa, per occuparsi di tutte quelle persone che perderanno il lavoro quando se ne andranno. Non c’è stata un’idea, una visione, su questo, così come non c’è stata una visione per molte altre cose.
Penso che la cosa triste sia che tre transizioni si sono sovrapposte nello stesso momento e che non siamo stati capaci di riemergere da tutto questo. Una transizione militare, una politica ed una economica, tutto è successo nello stesso anno, in un paese fragile. Abbiamo avuto una sovrapposizione veramente infelice”.
Abbiamo visto l’emergere di altri gruppi terroristi, come l’Isis, che di fatto è presente nel Paese. Ci sono relazioni tra l’Isis e i talebani, c’è una competizione per il potere tra questi gruppi diversi e sono davvero diversi?
“C’è una competizione per il potere, si sono effettivamente combattuti aspramente negli ultimi 4-5 mesi, e una delle ragioni per cui si è dovuto ammettere che l’Isis è presente adesso è che in alcune aree sono riusciti a far arretrare i Talebani. Sono talmente brutali che ci sono zone in cui i talebani si sono arresi al governo perché l’Isis stava cercando di arrivare a loro.
Quando diciamo che è una minaccia reale, questa brutalità ce ne dà un’idea, visto che nell’est del paese ci sono distretti controllati dall’Isis che prima erano territorio talebano.Quindi c’è una competizione tra questi due gruppi.
Ciò che fa paura è che quando il governo interviene si ritrova con due pistole puntate contro, mentre quando si ritira, ricominciano a combattersi tra di loro. Questo crea un dilemma in molte zone. Se non intervieni, la gente soffre a causa di queste due forze e si aspetta che il governo intervenga, ma quando intervieni diversi gruppi combattono contro di te. È qui che sta il dilemma, è una situazione con troppi gruppi ribelli, troppe armi, e questo fa paura”.
Intevista e traduzione: Maja Musi