Anche la giornata conclusiva del festival ci regala alcuni set di ottima fattura ed una perla da incorniciare: il ritorno degli Human Feel

Human Feel @Saalfelden Jazz

La giornata conclusiva del festival apre con il set di Susana Santos Silva, trombettista portoghese impegnata nell’area dell’improvvisazione radicale. Con lei la brava Lotte Anker (tenore e soprano),  Sten Sandell (piano), Torbjörn Zetterberg (doppio basso)  Jon Fält  (batteria). Il concerto ripercorre tutti i topos  del genere: iniziali sonorizzazioni accennate, lento crescere del collettivo, finale urlato. Il punto debole di un sound, che si basa tutto sulla capacità intuitiva dei suoi creatori,  è dato dal trio d’arredo batteria/piano/basso, con il percussionista dalla classica valigia alla Eta Beta che estrae convinto un minuscolo aggeggio per poi percuoterlo davanti al microfono, con un risultato nullo da un punto di vista sonoro, ma sufficiente ad accendere gli occhi del batterista con la faccia monella di chi questa volta la fatta grossa. In realtà l’appesantimento dovuto ai tre soci d’avventura non giova certo alle capacità comunicative della trombettista che pur denota, anche in questa occasione, tutte le doti strumentali a lei riconosciute.
Tralasciamo l’arrivo del Erlend Apneseth Trio per carità di patria e veniamo invece al pezzo forte del pomeriggio col ritrovato Human Feel, fatto di quattro primattori della scena newyorkese: Chris Speed e Andrew D’Angelo ai sax e clarinetti bassi,  Kurt Rosenwinkel alla chitarra e Jim Black alla batteria.
Chi temeva l’effetto rimpatriata per un gruppo ritrovato dopo anni di silenzio è stato smentito dalla musica messa in campo dal quartetto, ricca di duetti per sax pregevoli per interplay e feeling, di accordi di chitarra sempre calibrati e trasversali, di un Jim Black finalmente vulcano di tempi ed accenni ritmici: c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico, le vecchie virtù dello Human Feel si assommano alle nuove idee maturate nei singoli percorsi creativi. Unica nota negativa del set sono stati quei dieci minuti iniziali di cattiva amplificazione che hanno danneggiato l’inizio del concerto. Poi tutto bene, anzi benissimo.
Giro di boa ed arriva “A Novel Of Anomaly“, progetto italo/svizzero /finlandese con  Luciano Biondini  alla fisarmonica, Kalle Kalima  alla chitarra, e Lucas Niggli alla batteria. A questo trio stabile si aggiunge la voce di Andreas Schaerer, sia nelle melodie delle songs, sia in una sorta di contini obbligados paralleli agli assoli dei compagni. Un cantante interessante, con molta scuola alla McFerrin, forse un po’ troppo presente e rindondante nella personalità. La musica della combo è comunque interessante, non scade mai nell’ovvio piazzolismo o rive gauchismo, nonstante l’ottima fisarmonica di Biondini sia una garanzia di riuscita in classici latinoamericani o francesi che siano. Invece si cercano strade originali, che passano dal Brasile o dalla stessa Argentina, ma che non vogliono ricalcare il già sentito in altre tante occasioni.
Finalone da festivalissimo quello assegnato a Henry Butler e Steven Bernstein con la loro big band. Il primo, pianista e cantante di blues, dà sempre il -la- alla band portando rag time e boogie in quantità, mentre il tromberrista dirige il tutto, orchestrando e svolgendo il suo storico ruolo da showman. Dietro di loro un organico di lusso: Curtis Fowlkes, trombone, Charlie Burnham, violino,  Doug Wieselman, clarinetto e tenore, Peter Apfelbaum, tenore & soprano, Erik Lawrence, baritono & soprano, Matt Munisteri, chitarra, Brad Jones, basso,  Donald Edwards, batteria.  Dunque un parterre de roi, tutti impegnati ad un revival dei tempi d’oro (ammesso che qualche afroamericano ne abbia mai visto nemmeno un’oncia…), con brani ad esempio firmati da King Oliver e varie riletture, a volte un po’ mingussiane, dell’epopea degli anni ’20. Ogni cosa senza una smagliatura, con una resa pimpante ed estremamente accattivante, tanto da finire nell’apoteosi di un pubblico che ha visto, tra mille applausi, anche passare in platea una sorta di marching band  improvvisata (si fa per dire) dai fiati capitanati da Bernstein. Tutti i salmi finiscono in rithm & blues, il pubblico fluisce dal teatro eccitato, baci ed abbracci, appuntamenti per l’anno prossimo, anche se qualcuno, smaltita la sbornia del rutilante set della band si domanda: ben fatto, divertente … ma poi?