Nuovi 700 morti nel Mediterraneo, 1600 in pochi mesi. Il “mai più” del dopo-Lampedusa continua ad accadere nell’indifferenza degli Stati europei. Ora si pensa all’intervento dell’Onu o ad un’operazione “Mare Nostrum” europea, ma rimane il problema del coordinamento delle politiche e dell’impegno comune.

Sono almeno 700, ma potrebbero essere di più, i nuovi morti nel Mar Mediterraneo. Nella giornata di ieri un peschereccio che trasportava circa 950 migranti si è ribaltato nel Canale di Sicilia mentre stava per essere soccorso da un mercantile in acque internazionali. Dalle prima ricostruzioni sembra che il rovesciamento sia stato causato dallo spostamento in massa dei migranti presenti sull’imbarcazione verso un lato, proprio quando il mercantile stava giungendo in soccorso.
La strage si aggiunge alle tante che hanno contraddistinto le traversate con mezzi fatiscenti di persone che, in mano a trafficanti, partono dalla Libia.

Dalla cancellazione del programma “Mare Nostrum” si è registrato un picco di morti nel Mediterraneo. Sono almeno 1600 quelle avvenute negli ultimi mesi, un’impennata da quando era invece operativa la missione di ricerca e soccorso, sostituita invece da “Triton”, missione di pattugliamento delle frontiere.
Il tutto avviene in una situazione di forte instabilità in Libia, causata anche dalla guerra a Gheddafi per mano occidentale, e come conseguenza dei diversi conflitti che si registrano in Medio Oriente e nel continente africano, da cui decine di migliaia di persone scappano.

In tutto questo l’Europa appare assente. Nulla è stato fatto, nonostante i proclami, dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre del 2013, dove trovarono la morte 366 persone. Allora nell’isola siciliana si era registrata una passerella di leader europei, che erano giunti a depositare corone di fiori e a promettere cambiamenti nelle politiche migratorie che non sono mai avvenuti.
“Più che di responsabilità dell’Unione Europea – spiega ai nostri microfoni Chiara Favilli, docente di Diritto dell’Ue e socia dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – bisognerebbe parlare di responsabilità dei singoli Stati, che non vogliono dare all’Unione gli stumenti per intervenire”.
In particolare sono gli Stati del nord Europa a non investire risorse (che vengono destinate su base volontaria) e a non ritenere che il problema riguardi anche loro.

Quello che occorre nell’immediato, secondo Favilli, è il ripristino di un’operazione di ricerca e soccorso. “Un’operazione che era stata avversata da alcuni Paesi come la Gran Bretagna – ricorda – che sosteneva che costituisse un incentivo alle partenze”. Appurato che dalla Libia si parte lo stesso e che il numero dei morti è drasticamente aumentato, ora occorrerebbe che ci fosse un’azione concordata dall’Europa, congiuntamente ad un intervento delle organizzazioni internazionali come l’Onu, che avrebbero però il compito di stabilizzare la situazione in Libia.

A metà maggio, intanto, in Europa si terrà l’Agenda sull’immigrazione e l’asilo. Un’occasione per far dialogare fra loro le diverse anime europee, quella che si occupa di flussi migratori e quella che si occupa di cooperazione e sviluppo. Attualmente non vi è un coordinamento e spesso le situazioni vengono gestite in modalità emergenziale.
“Più che individuare nuovi strumenti – osserva Favilli – cosa che è stata fatta e sviscerata, occorre che si compia una rivoluzione rispetto al modo con cui gli strumenti vengono gestiti e gli strumenti perseguiti”.