Il sistema di accoglienza in Italia presenta diverse criticità e il Ministero tenta (tardivamente) di rimediare. Dalla carenza di progetti di integrazione e inclusione sociale ai dubbi meccanismi delle commissioni territoriali che valutano le richieste di asilo.

Sabato scorso, in un intervento durante un’iniziativa organizzata dall’associazione ItaliaDecide guidata da Luciano Violante, il ministro degli Interni Marco Minniti, ha affermato che l’obbiettivo che si è dato è arrivare all’accoglienza diffusa e chiudere i grandi centri di accoglienza per richiedenti asilo. “I grandi centri di accoglienza per quanto ci si possa sforzare di gestirli nel migliore dei modi non possono essere la via maestra per l’integrazione”, ha affermato Minniti.

Il ministro ha anche aggiunto che “i temi dell’emergenza e dell’immigrazione devono essere separati, metterli insieme è l’errore più catastrofico che si può fare”, trascurando il contributo alla confusione che egli stesso ha creato quando ha cavalcato la campagna contro le ong, fino alla rimozione delle navi che effettuavano salvataggi in mare nel Mediterraneo.
Stando sulla terra ferma, però, anche Minniti sembra accorgersi delle mancanze del sistema di accoglienza italiano e sta cercando, con diversi provvedimenti, di porvi rimedio.

Un primo nodo è rappresentato dall’autorevolezza e dalla composizione delle commissioni territoriali che svolgono il delicato compito di valutare le domande di protezione internazionale dei richiedenti asilo.
In un’audizione parlamentare del 31 gennaio scorso, Angelo Trovato, presidente della commissione nazionale per il diritto d’asilo ha fornito un dato importante: dal 2014 al 30 dicembre 2016 i verdetti negativi dati dalle commissioni territoriali ai richiedenti asilo sono stati ribaltati in tribunale nel 70% dei casi.

Questo dato getta un’ombra pesante sul lavoro delle commissioni territoriali. Se si fa una breve ricerca online, è possibile reperire delibere comunali e prefettizie in cui vengono nominati i membri delle commissioni che valutano le domande di asilo. Alcuni di questi sono geometri di uffici tecnici municipali o impiegati addetti a mansioni che nulla hanno a che vedere con il diritto internazionale e la protezione umanitaria.
Ogni commissione è formata da quattro membri: un esponente dell’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati), uno della Prefettura, uno della Questura e uno del Comune. Le domande di asilo non vengono valutate in plenaria, ma ciascun membro analizza diversi casi.

“I membri delle commissioni hanno dovuto seguire dei corsi di formazione – spiega ai nostri microfoni Andrea De Bonis dell’Unhcr – per cui non direi che non siano competenti. Il problema in questi anni è stato che non potevano svolgere questo lavoro in via dedicata“.
Dunque, se un Comune ha nominato un suo dipendente dell’Area Tributi a componente della commissione territoriale, egli ha dovuto dividersi tra cartelle esattoriali e storie di violenze da valutare per dare o meno la protezione internazionale.

In ogni caso, due settimane fa il Ministero ha operato delle correzioni al decreto 142 del 2015, in particolare proprio per quanto riguarda la composizione delle commissioni territoriali. I membri delle commissioni non saranno più esponenti di enti locali e questure, rimarranno la Prefettura con ruolo di presidenza e l’Unhcr.
Il personale che andrà a comporle, inoltre, sarà selezionato in base alle proprie qualifiche professionali e dovrà svolgere questo lavoro in via dedicata. Per fare ciò, il decreto Minniti ha previsto il reclutamento di 250 persone, la cui prima selezione è cominciata a settembre.

Un altro nodo fondamentale, al centro delle dichiarazioni dell’altro ieri di Minniti, riguarda l’impostazione stessa del sistema di accoglienza. Anche in questo caso si può partire da un dato: i posti disponibili nel sistema Sprar – quello che assomiglia di più al “modello tedesco” e prevede percorsi di inserimento sociale – sono 30mila a livello nazionale, mentre i migranti ospitati in strutture di emergenza (Centri di Accoglienza Straordinaria) sono 133mila.

Questi dati, secondo De Bonis, dipendono da diversi fattori. Anzitutto dal fatto che lo Stato italiano si è concentrato negli ultimi anni sulla questione del soccorso in mare e sulla prima accoglienza.
In secondo luogo molto dipende dal fatto che la materia viene affrontata attraverso una legislazione derivativa di direttive europee che trascura l’integrazione, lasciata alle scelte dei singoli Stati.

Il governo italiano, sempre due settimane fa, ha cominciato a correre ai ripari con il “Piano nazionale di Integrazione“, presentato dallo stesso Minniti. Un documento abbastanza scarno (33 pagine in tutto) in cui si affermano diritti e doveri dei titolari di protezione internazionale.
Lo Stato chiede il rispetto della Costituzione, della parità fra i generi e lo studio della lingua italiana, per contro offre uguaglianza e pari dignità, libertà di religione, accesso a istruzione e formazione, interventi per facilitare l’inclusione nella società.

Una formulazione che, a tutti gli effetti, appare piuttosto generica e lascia scoperta una questione non irrilevante come il problema abitativo.
Ne sanno qualcosa gli ex-occupanti di via Curtatone a Roma, molti dei quali superstiti della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, sgomberati con la violenza il 19 agosto scorso dallo stabile che stavano occupando e cacciati con gli idranti e i manganelli da piazza Indipendenza, dove si erano accampati in assenza di un’alternativa, il 24 agosto. Tutti gli occupanti erano in possesso di un documento, tra cui molti beneficiari di protezione internazionale.

La retorica xenofoba e razzista cui assistiamo dopo ogni attentato in Europa è accompagnata anche da condivisibili riflessioni sull’inclusione sociale delle persone messe ai margini della società.
Se si vuole che questo ragionamento non rimanga generico, valutare come viene organizzata l’accoglienza e l’inserimento sociale di nuovi cittadini è uno strumento utile a capire quanto la politica lavori effettivamente ed efficacemente alla coesione sociale.

ASCOLTA L’INTERVISTA AD ANDREA DE BONIS DELL’UNHCR: