L’inchiesta sul traffico illecito di rifiuti dell’impianto petrolifero di Eni in Basilicata, costata la testa del ministro Guidi, ora affronta anche il tema della salute. I Noe acquisiscono cartelle cliniche dagli ospedali lucani per verificare l’incidenza dei tumori. La geologa Colella: “Il rischio c’è ed è dovuto all’esposizione cronica ai gas bruciati”.

In pieno stile berlusconiano, nel corso della direzione del Pd, ieri Matteo Renzi ha attaccato i pm che indagano sul Centro Oli di Viggiano, in Basilicata, costato le dimissioni alla ministra Federica Guidi. Secondo il premier, le inchieste della Procura di Potenza scattano con la tempistica delle olimpiadi e difficilmente portano ad una conclusione processuale.
Un’arroganza e un’ostentazione di sicurezza, quella del premier, che in realtà tradisce una difficoltà vissuta dal suo governo per l’ennesimo caso che sfiora o investe l’esecutivo stesso.

Nel frattempo, però, le indagini della Procura di Potenza vanno avanti e includono anche un ulteriore filone, legato alla salute. I carabinieri del Noe stanno acquisendo migliaia di cartelle cliniche per verificare l’incidenza dei tumori in Regione, in particolare in corrispondenza degli impianti petroliferi. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro oli di Viggiano, stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.

A spiegare ai nostri microfoni i rischi di inquinamento – e dunque per la salute – connessi alle attività petrolifere è Albina Colella, docente di Geologia all’Università della Basilicata.
Il rischio maggiore riguarda l’inquinamento dell’aria – spiega la professoressa – in particolare per le emissioni dovute alla combustione del gas flering in torcia, ovvero dai camini sempre attivi“. I rischi maggiori, spiega la geologa, non riguardano fenomeni episodici, ma un’esposizione cronica alle emissioni inquinanti, spesso in relazione alla presenza di abitazioni nelle vicinanze degli impianti.

I problemi, però, non sono finiti. Oltre all’aria, infatti, gli impianti petroliferi comportano rischi di inquinamento ambientale anche per le acque e per il suolo. Le sostanze tossiche, in questo caso, finiscono nella catena alimentare, assorbite dalle piante o dai pesci che finiscono sulle nostre tavole.
“In Basilicata abbiamo già avuto il caso di un produttore di formaggi che esportava in Giappone – ricorda Colella – e che ha dovuto ritirare i propri prodotti per la presenza di metalli”.

Nelle aree attigue agli impianti petroliferi, intanto, è già stata interdetta la produzione agricola. Resta ora da verificare se l’inquinamento dell’aria possa aver aumentato l’incidenza di tumori ed altre patologie, come avvenne nel caso dell’Ilva di Taranto.