Peter Brook porta il pubblico dello Storchi su di un campo di battaglia in cui cumuli di cadaveri, preda di uccelli rapaci, sono tutto ciò che rimane di un’umanità votata ad una ciclica distruzione. 

Trentuno anni dopo la leggendaria rappresentazione del suo MahabharataPeter Brook torna a rielaborare le storie del vasto poema indiano per descrivere la  civiltà contemporanea come una carovana di esseri viventi dietta nella medesima diezione: la distruzione,  il reciproco annientamento. 

Arbitro delle sorti è il Destino chiamato inevitabilmente a “sterminare eroi” sui tanti campi di battaglia del passato come del nostro sangiunoso presente. 

Nel Mahabharata,  afferma il regista nelle note di scena, si trovano le domande importanti delle nostre esistenze. Il  teatro del novantaduenne Brook è capace di far emergere con estrema semplicità,  asciutezza, essenzialità,  i quesiti che ogni essere umano si pone, o dovrebbe porsi, sull’essere e sul morire, aiutato dalle storie che il poema epico propone, concatenate l’una con l’altra, eppure caoticamente lontane dal fornirci un quadro complessivo chiaramente interpretabile. Rimane sempre qualcosa di indicibile, di inesprimibile, come la vera essenza del giovane che, nel finale, accoglie in sé il vecchio Markandeya perché possa riposarsi in lui, scoprendo al contempo, nella sua pancia, un infinito universo da esplorare.

Lo spettatore, lungo tutto l’arco della narrazione teatrale è, al pari di Markandeya, un esploratore in cerca del senso globale delle tante storie narrate dai personaggi della pièce, interpretate da quattro attori che assumono multiformi sembianze semplicemente usando una sciarpa, una bacchetta di bambù o un bastone avvolti da una luce rossastra, il colore del sangue versato dai giovani guerrieri.

Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’Callaghan, questi i nomi dei perfetti cantastorie della compagnia internazionale del Thèâtre des Bouffes du Nord, accompagnati dal musicista Toshi Tsuchitori alle percussioni, che si sono alternati nell’impersonare i re Pandava e Kauava, vermi, manguste, avvoltoi, falchi e piccioni, protagonisti delle narrazioni indiane dell’adattamento di Brook e Marie- Hélene Estienne sul testo tradotto in inglese da Jean – Claude Carriere.

Ogni storia correlata alla macro vicenda del sanguinoso esito della guerra tra le famiglie Pandava e Kaurava, racchiude nel proprio fondo significati capaci di oltrepassare i millenni e di schiudersi nell’intimo di ogni spettatore del ventunesimo secolo grazie al tramite dell’azione scenica che, per propria natura,  come spiegava Peter Brook nel suo celebre testo Il punto in Movimento, ha il compito precipuo di “tradurre l’intraducibile” facendo risuonare la presenza del dharma, ovvero del motore essenziale dell’essere, in sé inspiegaile e inconoscibile.

Il conflitto perenne di cui il Mahabharata ci parla è il conflitto presente in ogni individuo  e in ogni manifestazione dell’universo, un conflitto tra le infinite possibilità e le loro negazioni, tra bene e male che ha origine dal fatto che “nessun uomo buono è interamente buono e nessun uomo cattivo è interamente cattivo”.

Brook racconta ne Il punto in Movimento come le vicende del poema epico indiano rappresentate nel teatro tradizionale orientale gli fossero parse inizialmente un qualcosa di “mitico e remoto, originario  di un’altra cultura, ma senza alcun rapporto con la mia vita”. Sono serviti anni di lavoro con i suoi collaboratori e con i suoi attori per riuscire a riflettere in quelle affascinanti narrazioni “qualcosa di proprio”, qualcosa che suggerisse “il profumo dell’India” comunicando al contempo qualcosa di antico e di contemporaneo.

L’alchimia è riuscita nuovamente in questo Battlefield, Brook e la sua compagnia sono stati capaci di far baluginare nelle nostre menti, al posto degli eroi antichi andati sul campo di battaglia come se fossero stati immortali, schiere di manager dei nostri tempi che, al pari loro, vivono credendo di essere immortali, increduli che la morte possa davvero travolgere tutto e tutti. Ogni spettatore si è sentito chiamato in causa metre re Yudishtira scopre quanto il prezzo della giustizia possa essere alto e come la distruzione sia già accaduta nella storia e accadrà ancora e ancora.

Con la semplicità ed essenzialità che appartengono al teatro brookiano, Battlefield, lungi dall’essere una cerimona celebrativa della carriera del regista, pone lo spettatore davanti ad uno specchio deformante in cui è difficile riconoscersi, per l’alto grado di simbolicità di ogni elemento narrativo, ma che restituisce a chi lo guarda la sensazione di essere davanti ad un’immane e inevitabile catastrofe in cui solo la speranza può per lo meno prolungargli la vita. 

“Sei ricco perchè sei a teatro” così uno degli attori apostrofa uno spettatore durante lo spettacolo. Il parlare di morte e catastrofe non fiacca di fatti lo spettatore, che esce dalla sala con una nuova consapevolezza: quella di essere un privilegiato per aver potuto godere dell’essenziale bellezza di un lavoro del Thèâtre des Bouffes du Nord.  

30/05/2016

Simona Sagone