Internazionale di questa settimana traduce un articolo di Naomi Klein, in cui la giornalista canadese traccia un bilancio di un decennio passato dopo il suo best seller No Logo (Rizzoli).

Cosa è successo in tutto questo tempo? L’inchiesta della Klein mostrava come le grandi multinazionali si concentrano sul marketing (il logo), mentre esternalizzano la produzione in paesi lontani, meno costosi e regolamentati.

[alcune aziende] sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico. affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporation, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo.

Questo metodo, continua la Klein, in questo decennio è stato fatto proprio anche dalla politica. A cominciare dalla presidenza di George W. Bush:

la sua amministrazione ha sistematicamente fatto al governo statunitense quello che i dirigenti fissati con il branding avevano fatto alle loro aziende dieci anni prima: l’ha svuotato, assegnando al settore privato molte funzioni essenziali, dalla difesa dei confini alla protezione civile all’intelligence.

Il successore Barack Obama è definito dalla giornalista, e da tutti, il campione del marketing perché con una campagna di rebranding è riuscito a trasformare l’antiamericanismo, dilagato con Bush, in fiducia ovunque nel mondo: “ogni cosa sfiorata da Obama e dalla sua famiglia diventa oro”. Tutto questo grazie alle promesse di cambiamento, tutti lo volevano ma attuarlo non è così facile, e allora c’è la classica frattura tra sostanza e apparenza:

Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al grande cambiamento strutturale profondo. Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Begram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latino americana alla corte suprema e intanto fa approvare un giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall Street. E soprattutto, promettere di metter fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore”, mentre in Afghanistan e Pakistan i conflitti ispirati a quella logica s’intensificano.

Se la politica impara dalla aziende, noi cittadini cosa possiamo fare? E’ l’inevitabile quesito che la Klein rivolge a sé stessa e ai lettori. La risposta non può che rimettersi in movimento:

la vittoria di Obama e l’entusiasmso per il suo marchio hanno dimostrato che c’è un’enorme fame di cambiamento in senso democratico: moltissime persone non vogliono conquistare i mercati con la forza delle armi, disprezzano la tortura, credono nelle libertà civili, vogliono che le aziende stiano fuori dalla politica, pensano che il riscaldamento globale sia la grande battaglia del nostro tempo e vogliono far parte di un progetto politico più ampio. Trasformazioni come queste si potranno ottenere solo quando i movimenti avranno i numeri e la forza per pretendere delle risposta dalle élite. Obama ha vinto le elezioni perché ha saputo sfruttare la nostra nostalgia per quei movimenti. Ma era solo un’eco, un ricordo. Il nostro compito ora è costruire un movimento che sia the real thing, un vero movimento.