Dopo l’11 settembre 2001, con la scusa della guerra al terrore, gli Stati Uniti hanno legittimato la tortura con la complicità degli psicologi. Nel Paese, però, è nato un movimento, la Coalition for an Ethical Psychology (Cep), che ha contribuito a istituire un nuovo codice etico per gli psicologi per non dare più copertura legale a Cia e Difesa. L’intervista al fondatore della Cep, Steven Reisner, psicologo e attivista newyorkese, che ha cominciato la battaglia dopo alcuni suicidi a Guantanamo.

Furono tre suicidi nel carcere di Guantanamo e il rapimento dei figli minorenni di un ricercato pakistano, Khalid Shaykh Muhammad, ad aver fatto venire dubbi a Steven Reisner, psicologo newyorkese, sulla complicità di psichiatri e psicologi nella tortura operata dalla Cia e dalla Difesa statunitense nella “war on terror”, scaturita dagli attentati dell’11 settembre 2001.
La detenzione preventiva e le pratiche come il waterboarding a Guantanamo e non solo, del resto, furono rivendicate dall’amministrazione Bush e vendute come necessarie per garantire la sicurezza degli americani.

Quella fase storica di compressione dei diritti civili, incarnata nel Patrioct Act, però, ha segnato un balzo culturale che ancora ci portiamo dietro nello sdoganamento del concetto di tortura e violenza e questo è stato materialmente possibile sul piano legale grazie alla copertura, alla complicità dell’Associazione degli Psicologi Americani (Apa).
Grazie ad un lento e ostinato lavoro della Coalition for an Ethical Psychology (Cep), fondata proprio da Reisner nel 2006, qualcosa negli Stati Uniti è cambiato. Almeno formalmente.

“Quando appresi la notizia dei tre detenuti suicidatisi a Guantanamo – spiega Reisner – mi colpì la risposta di uno psichiatra del carcere ad un reporter che gli chiedeva conto delle torture e del possibile contributo di queste al suicidio. Lo psichiatra disse che i detenuti erano già depressi prima di arrivare a Guantanamo“.
Una risposta in cui l’attivista ha riconosciuto il linguaggio utilizzato dalle compagnie di assicurazioni per non assicurare pazienti perchè hanno delle condizioni pre-esistenti, secondo l’idea aziendalista americana di responsabilità.

Un secondo episodio significativo fu quando la Cia andò a catturare Khalid Shaykh Muhammad nel 2003 in Pakistan. Grazie ad una soffiata, gli agenti si presentarono a casa dell’uomo, ma senza trovarlo. Decisero allora di rapire i due figli, di 7 e 9 anni e di trasferirli in un blacksite, una prigione segreta, provando a ricavare informazioni da loro e tenendoli in ostaggio per esercitare pressioni sul ricercato.
Una pratica spaventosa agita su dei bambini, per la quale lo psicologo newyorkese interrogo l’Apa.
“Mi fu risposto di stare tranquillo – racconta – perché c’erano degli psicologi infantili che si stavano prendendo cura di quei bambini, come se si potesse rapire bambini, isolarli e in qualche modo dare comunque un’adeguata assistenza”.

Allo psicologo, dunque, fu chiaro che esistevano colleghi che stavano utilizzando la loro competenza e autorità professionale per scopi strategici, militari o di intelligence e non per l’interesse dell’essere umano in se stesso, con una estrema violazione dell’etica.
I fatti dimostrano che Reisner aveva ragione. Ma per comprenderlo occorre ripercorrere la storia dall’inizio.

Nel 2002, a pochi mesi dagli attentati alle Twin Towers, sotto l’egida dell’allora segretario di Stato Donald Rumsfeld, entrò in uso il “Memorandum sulle pratiche di tortura“, una serie di documenti in cui si suggerisce a Cia, Dipartimento della Difesa e allo stesso presidente degli Stati Uniti l’utilizzo durante gli interrogatori di sofferenze fisiche, con tecniche quali la privazione del sonno e il famigerato waterboarding. Strumenti considerati legalmente legittimi sulla base di un’interpretazione estensiva dei poteri presidenziali e giustificati dallo stato di guerra al terrorismo.

Nel memorandum si affermava che non c’era tortura se l’interrogatore avesse consultato un professionista sanitario e un professionista della salute mentale e se questo consulto avesse stabilito che le azioni dell’inquirente non avrebbero causato danni permanenti o di lunga durata e gravi. Era dunque necessario il parere e la certificazione di professionisti della salute presenti per garantire che i trattamenti utilizzati negli interrogatori non erano inumani.
Alle autorità americane il nulla osta del personale sanitario serviva soprattutto per avere una copertura legale nelle pratiche di tortura.

Nel 2006 uscì un leak su un rapporto della Croce Rossa Internazionale, in cui si evidenziava come a Guantanamo gli psicologi avessero un ruolo ambiguo negli interrogatori.
Il caso scoppiò quando l’Apa rilasciò un report secondo il quale gli psicologi avevano un ruolo legittimo nel supporto agli interrogatori. Una valutazione diametralmente opposta a quella rilasciata dagli altri ordini professionali, quali medici, psichiatri ed infermieri.
L’esercito americano, dopo aver esaminato tutti i rapporti, decise quindi di avvalersi del supporto dell’unica categoria di professionisti che, di fatto, aveva offerto collaborazione per la tortura: gli psicologi.

Fu in questo momento che Steven Reisner entrò nel vivo della propria battaglia. “La mia perorazione all’Apa era relativa al fatto che noi potessimo fermare la tortura – racconta lo psicologo e attivista – perchè la tortura poteva avvenire solo se c’era un collega presente, mentre tutti gli altri professionisti sanitari avevano rifiutato. Mi sono detto che se anche gli psicologi avessero detto di no, allora questi interrogatori pieni di abusi, questi episodi di tortura non avrebbero avuto più nessuna base legale“.

Nel 2009, l’attuale presidente Barack Obama ripudiò il memorandum sulla tortura e a dare un colpo alla collaborazione degli psicologi nelle torture fu il famoso “Hoffman report“, dal nome dell’avvocato David Hoffman, ingaggiato dall’Apa per un’indagine indipendente.
Il rapporto confermò la collaborazione e, di fronte all’evidenza, l’associazione degli psicologi adottò un nuovo codice etico.
Una vittoria per la Cep e per Reisner, quindi, ma non una garanzia che la tortura non venga più praticata e che non abbia fatto breccia a livello culturale.

“Io non credo più che gli psicologi possano fermare la tortura – conclude – ma credo che possano riportare la tortura nell’ambito della vergogna. La peggior cosa che è accaduta durante l’amministrazione Bush è che la tortura è diventata solo un fatto, ha smesso di essere una di quelle cose che non si possono proprio fare e che se qualcuno fa diventa immediatamente e per definizione una brutta persona. Abbiamo perso la nostra vergogna e anzi siamo diventati orgogliosi di torturare e io voglio lavorare con i miei colleghi per ripristinare quella vergogna in modo che la tortura sia riportata sotto il livello dell’accettabilità e ogni volta che risbuca venga fermata”.