Dal 1992 l’Europa chiede agli Stati membri di introdurre forme di reddito di base, ma in Italia il tema viene ancora irriso. Bin Italia nel 2013 presentò una legge di iniziativa popolare sul Reddito Minimo Garantito, che è stata dimenticata in un cassetto del Parlamento. Il reddito di base è un dibattito mondiale, ma il nostro Paese ha un approccio ottocentesco al tema della povertà. I limiti di Rei e Reddito di Cittadinanza.

Se siete tra quelli che, di fronte alla fake news delle lunghe file al Caf di Bari per compilare i moduli del Reddito di Cittadinanza promesso dal M5S, avete riso e ironizzato, probabilmente siete doppiamente stupidi. Siete stupidi per aver creduto a quella che si è rivelata una bufala, ma soprattutto siete stupidi perché vi siete divertiti (con una punta di razzismo anti-meridionalista) a prendere in giro persone che non tardereste a definire fannulloni.

Il dibattito europeo e mondiale che da decenni ruota attorno a forme di reddito di base e gli studi compiuti da economisti e sociologi dimostrano che i trogloditi siete voi. Però tranquilli, siete in buona compagnia: molti dei partiti italiani continuano a ritenere questo tema una forma di assistenzialismo o, tutt’al più, una forma di carità da elargire ai poveracci, pretendendo in cambio che si rimbocchino le maniche e lavorino per ripagare ciò che lo Stato ha “regalato” loro.

In realtà, le cose non stanno propriamente così. È dal 1992, infatti, che la tanto vituperata Europa chiede agli Stati membri di introdurre forme di reddito di base. L’ultimo appello, rimasto inascoltato in Italia, è dell’ottobre 2017.
Non c’è niente di socialista nella richiesta europea, ma la consapevolezza che, flessibilizzando in entrata ma soprattutto in uscita il mercato del lavoro, è necessario avere forme di paracadute per evitare di creare problemi sociali come la povertà, che hanno un impatto considerevole sulla società e sulla sua economia.

Nel 2013 alcune realtà del nostro Paese, capeggiate da Bin Italia, presentarono in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione del Reddito Minimo Garantito. Una proposta, consegnata nelle mani della presidente della Camera Laura Boldrini, che è finita in un cassetto polveroso del Parlamento e non è mai stata discussa.
Nel frattempo, però, il governo Gentiloni ha introdotto il Rei (Reddito di Inclusione), una forma molto contenuta di supporto alla povertà più estrema, mentre il M5S ha avanzato la sua proposta di Reddito di Cittadinanza, di cui si sta discutendo in questi giorni.

Ai nostri microfoni, Sandro Gobetti di Bin Italia spiega le differenze e i limiti di Rei e Reddito di Cittadinanza rispetto al Reddito Minimo Garantito proposto nel 2013: “Innanzitutto la nostra era una misura individuale e non famigliare, come il Rei. A differenza di quest’ultimo e della proposta del M5S, che hanno una durata limitata nel tempo, inoltre, il reddito minimo vale fino al miglioramento effettivo della situazione economica del beneficiario“.
Ma non è tutto: così come avviene in diversi Stati europei, il reddito minimo garantito è accompagnato da una serie di servizi di qualità, come ad esempio il sostegno all’affitto, che prendono in considerazione tutte le difficoltà dell’individuo.

“Si tratta del concetto basico del modello sociale europeo – osserva Gobetti – secondo il quale nessuno deve scivolare sotto una certa soglia economica”. In altre parole, si tratta di un diritto alla dignità umana, che in Italia non è garantito, ma anzi: nel nostro Paese si è rovesciato il paradigma, considerando che la povertà sia colpa del povero e della sua pigrizia e non sia, invece, frutto e conseguenza di decenni di politiche sociali e del lavoro che hanno prodotto conseguenze devastanti.

Un altro aspetto per cui il reddito minimo diverge dal Rei di Gentiloni o dal Reddito di Cittadinanza dei grillini è la questione della condizionalità del lavoro.
Il dibattito italiano vuole condizionare il sussidio allo svolgimento di un qualsiasi lavoro, ma gli studi delle forme europee già introdotte mettono in guardia su questo punto. “Spesso l’obbligatorietà di qualunque lavoro produce la vessazione di chi ne è beneficiario più che la sua inclusione – spiega l’esponente di Bin Italia – sempre per il fatto che la povertà è considerata come una colpa”.
Questa dinamica è raccontata efficacemente dal film “I, Daniel Blake” di Ken Loach, dove un uomo di una certà età perde il lavoro per problemi di salute e deve affrontare trafile burocratiche per avere un sussidio che lo umiliano.

Quello che potrebbe essere anche uno strumento per affrancarsi dal ricatto sul lavoro, quindi, rischia di diventare anch’esso un ricatto, ma il non riconoscimento della storia individuale dei beneficiari rischia di diventare un problema per l’intera società.
“Ipotizziamo che un chirurgo perda il lavoro e debba ricorrere ad un reddito di base – esemplifica Gobetti – Se per dargli il sussidio lo costringiamo a friggere patatine da Mc Donald’s è evidente che l’intera società ha perso un chirurgo”. L’obbligo di svolgere un qualunque lavoro e non un lavoro inerente la storia e le capacità della singola persona, quindi, può produrre un abbassamento delle competenze dell’intera società.

Il tenore del dibattito in Italia, come sappiamo, è però molto diverso. Chi propone forme di reddito di base, come è accaduto di recente, viene irriso e ciò avviene perché “l’approccio italiano è un approccio ottocentesco“, spiega Gobetti. Mentre in Finlandia, India, Kenya, Quebec e Olanda si stanno sperimentando forme di reddito di base incondizionato, in Italia si continua ad avere l’approccio di duecento anni fa, quando nell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale si pensava di recuperare i poveracci facendogli pulire gli escrementi dei ricchi signorotti borghesi proprietari delle fabbriche.

ASCOLTA L’INTERVISTA A SANDRO GOBETTI: