Oggi, come nel 2015, per i migranti bloccati a Ventimiglia l’ultima speranza per varcare il confine con la Francia è il “passo della morte”. Tre anni fa il fotoreporter Max Cavallari realizzò un reportage su quel sentiero, che ora viene riproposto nella mostra “Ventimiglia e il passo della morte”. Venerdì 25 maggio l’inaugurazione all’interno di It.a.cà.

Il fenomeno della migrazione di massa dal Medio Oriente e dall’Africa non è solo un fatto reale e tangibile ovunque, è anche un fatto mediatico sfruttato retoricamente da un certo pensiero politico all’avvicinarsi di giornate elettorali. E cosa significa migrare ed essere dei migranti in cerca di rifugio dalla guerra o di migliori condizioni di vita per sé e per la propria famiglia finisce per coincidere con quello che discorsi politici e media vogliono far trasparire.
La mostra “Ventimiglia e il passo della morte”, che il fotografo Max Cavallari inaugura venerdì 25 maggio alle Serre dei Giardini Margherita all’interno del festival I.TA.CÀ. è l’occasione per dubitare che quella sia tutta la verità e cogliere quegli aspetti che di solito sfuggono o vengono messi in ombra. I protagonisti del reportage sono gli uomini, le donne, i bambini che vivono in bilico sul confine tra Italia e Francia, a Ventimiglia. Per loro l’unica possibilità di varcare il confine chiuso era ed è quello di avventurarsi lungo il cosiddetto “passo della morte”, un sentiero di montagna che sovrasta la frontiera.

Lì tutto ebbe inizio nel 2015, quando 500 migranti provenienti da Somalia, Eritrea, Senegal e Siria furono bloccati alla frontiera francese e la reazione fu un presidio semi-permanente sugli scogli.
Molti cercarono vie alternative e l’unica possibilità per giungere in Francia era avventurarsi nel sentiero sui monti, a metà del quale si trova il filo spinato risalente alla seconda guerra mondiale.
 “Il passaggio me lo ha fatto conoscere Enzo Barnabà – racconta Cavallari ai nostri microfoni – Il racconto di questo passaggio ha un valore simbolico anche per noi, perché venne realizzato da ebrei e partigiani che volevano passare dall’altra parte ed anche lì si erano ritrovati muri chiusi. Questo è diventato un passaggio di salvezza non solo per quei partigiani ma anche per i migranti dal 2015 in poi”.

La narrazione intorno i migranti che passano da Ventimiglia spesso trascura il ruolo di volontari ed associazioni che si sono strette intorno a loro. “Diversi media hanno raccontato quella realtà grazie ad Enzo. Ma l’attenzione si è concentrata molto di più sui migranti bloccati, piuttosto che su tutto quello che c’è intorno ad una condizione del genere, ossia le persone che in qualche modo pongono un argine, quando è possibile, alla chiara negazione dei diritti umani che avviene in quel luogo”, continua Cavallari. Ed infatti la cronaca racconta di violenze della polizia francese su donne in gravidanza e famiglie che cercano di attraversare il confine o di irruzioni di agenti francesi in centri di accoglienza come quello di Bardonecchia, ma sfugge l’aspetto di umanità e solidarietà che pure è presente in fatti tanto drammatici.

La realtà raccontata dalle fotografie di Cavallari è un flusso continuo di persone con cui è difficile mantenere i contatti. “La condizione che non capiamo quando abbiamo a che fare con situazioni del genere è che queste persone sono sempre in viaggio ed ogni elemento che si aggiunge alla loro storia può essere fatale”. Sarà questo il quadro di cui si discuterà venerdì con Enzo Barnabà, che ha guidato il fotografo nei suoi 10 giorni al presidio di Ventimiglia. Contribuiranno al dibattito anche Giuseppe Sciortino, sociologo esperto di immigrazione, e Claudio Mazzanti, curatore di ‘The wall book’ History, Art and Multimedia’.

Marta Campa

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