La vita civile di un Paese deve essere impostata sulla Costituzione, che è il patto sociale di cittadinanza, e non sulla legalità, che è il rispetto di leggi e dispositivi che possono cambiare con i governi ed essere incostituzionali. Occorre diffidare da chi si appella sempre e soltanto alla legalità.

Il concetto di “legalità” è ufficialmente la peperonata politica dei nostri tempi. Un’arma retorica che fatica ad essere digerita e ogni tanto si ripropone nel dibattito pubblico italiano.
Ne sentiamo parlare sia a destra che a sinistra, vi si appellano strumentalmente esponenti di ogni forza politica, almeno fino a quando alcuni loro colleghi non vengono indagati e condannati per corruzione o reati affini. In quelle occasioni la parola sparisce dalle dichiarazioni.
Negli ultimi vent’anni si è talmente tanto spinto sul concetto di legalità, che in molte scuole è diventata materia di progetti educativi.

Perché questa ossessione per la legalità? Innanzitutto bisognerebbe capire che cos’è.
La legalità è il rispetto delle leggi, qualunque esse siano. Se le leggi sono buone o cattive bisogna comunque rispettarle, così come bisogna rispettare il lavoro di chi applica la legge, cioè la magistratura. In una democrazia, se una legge è cattiva si può cambiare, ma finché ciò non succede va applicata.
Non vi è niente di più debole e aberrante delle argomentazioni di questo dogma, che non ha fondamenti giuridici, ma soltanto politici. Quindi di parte.
A regolare la vita civile di uno Stato, la pacifica e corretta convivenza dei suoi abitanti, non è il codice penale, non è il codice civile, né qualsiasi altro grumo legislativo. Prima e sopra tutte queste leggi vi è la Costituzione, l’unico e fondamentale patto sociale tra lo Stato e il cittadino o la cittadina. La cittadinanza è basata su questo “accordo”. I governi e i neo-cittadini giurano sulla Costituzione, di cui le leggi ordinarie dovrebbero essere un’emanazione applicativa.

In quel “dovrebbero” sta implicitamente racchiusa la spiegazione di mille problemi del nostro Paese.
Il corretto funzionamento della democrazia può essere garantito solamente se le sue strutture, dinamiche e leggi rispettano il patto sociale fondamentale, cioè la Costituzione. Se uno solo dei meccanismi dell’ordinamento dello Stato viene alterato, a catena tutto ciò che sta a valle rIschia di uscire dal tracciato democratico.
Facciamo un esempio concreto. Il primo garante della Costituzione italiana è il presidente della Repubblica. La sua firma apposta sulle leggi del Parlamento dovrebbe essere un patentino di correttezza costituzionale. Eppure, nella storia recente, sono state numerose le leggi firmate da vari presidenti della Repubblica ad essere risultate incostituzionali: la legge 40 sulla fecondazione assistita, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, il Pacchetto Sicurezza di Maroni-Berlusconi e svariate leggi elettorali.
Per fortuna, in Italia, la responsabilità di verificare la correttezza di una legge non grava solo sulle spalle del Capo dello Stato. Vi è la Corte costituzionale, che però non funziona in via automatica e preventiva, ma solo se interpellata.
Quanto al potere dei cittadini di cambiare leggi ingiuste, si veda come è stato violentato dalle istituzioni lo strumento del referendum, sia a posteriori (referendum sull’acqua pubblica), che a priori (referendum sui voucher).

Quanto può considerarsi legale una legge che non rispetta la Costituzione?
Un gioco di parole per sottolineare che il concetto di legalità è piegabile e funzionale a questo o quel potere politico od economico e dunque non dà alcuna garanzia di uguaglianza di trattamento dei cittadini di uno Stato.
Se ci pensiamo un attimo, tutte le guerre intraprese dal nostro Paese dal dopoguerra ad oggi sono perfettamente legali: avvallate da leggi e decreti votati dal Parlamento. Eppure l’articolo 11 della Costituzione parla chiaro.
Uscendo dai nostri confini, anche la condanna all’ergastolo di Nelson Mandela in Sudafrica era perfettamente legale, cioè rispondeva a leggi e regolamenti fatti ad hoc per incarcerarlo.

La legalità non può essere il criterio che guida uno Stato democratico e non è un caso che la classe politica attuale utilizzi questo concetto al posto di quello più corretto e appropriato di costituzionalità.
Il concetto di legalità è agitato in modo mistificatorio per porre l’accento sul potere esercitato in modo più o meno autoritario e non sul patto sociale costituzionale che garantisce tutte e tutti.
Alla luce di questa lettura è più facile capire perché alcune esperienze sociali interessanti vengono spazzate violentemente via col pretesto della legalità.
A Bologna è stato sgomberato il centro sociale Làbas perché al suo interno viveva la Costituzione più che in altri luoghi dello Stato. E ciò avveniva non in modo sussidiario, ma conflittuale poiché l’obiettivo di attivisti e attiviste non era quello di farsi pagare dallo Stato il proprio indottrinamento confessionale.

Se al posto del criterio della legalità (occupazione abusiva) provassimo a valutare quell’esperienza col criterio della costituzionalità scopriremmo cose interessanti.
Dare dignità e un tetto a chi li ha persi è più costituzionale (articoli 41, 42 e 43) di sfrattare le persone, sgomberarle anche se vivono in strutture abbandonate da anni o accanircisi contro (articolo 5 del Piano Casa) perché non riescono a stare al passo dei diktat inflessibili del mercato.
Aiutare chi ha bisogno indipendentemente dal sesso, dal colore della pelle o dalla religione è più costituzionale (articolo 3) del decreto Minniti sulla sicurezza urbana che marginalizza e combatte i poveri al posto della povertà.
Costruire relazioni pacifiche rispettando le reciproche differenze è più costituzionale (articolo 2) che fare accordi con dittature per fermare i flussi migratori.
Fare alleare cittadini e agricoltori per una produzione più equa e rispettosa dell’ambiente è più costituzionale (articolo 9) che imporre le regole del mercato che devastano il territorio e affamano i più deboli.

A Làbas più che in Prefettura o in Procura vivevano gli articoli della Costituzione. Al Viminale e a Palazzo Chigi, invece, molti di quegli articoli sono carta straccia.
Ma provatelo a spiegare ai dirigenti culturalmente ritardati di questa classe politica.