Negli ultimi giorni il premier italiano sembra aver ingaggiato uno scontro contro l’Ue sul tema dell’economia, in particolare sul calcolo del differenziale tra pil reale e pil potenziale, che determina la flessibilità concessa all’Italia. Il governo italiano, però, non ha un piano B e la battaglia risulta tardiva: se avesse sostenuto il “Fronte Mediterraneo” con la Grecia forse l’austerity non regnerebbe sovrana.

Negli ultimi giorni il premier Matteo Renzi appare molto nervoso e combattivo. Al vertice europeo di Bratislava, tenutosi sul finire della settimana scorsa, il presidente del Consiglio italiano ha abbandonato l’aplomb formale e si è scagliato a muso duro contro Germania e Ue sul tema dell’economia. La stessa cosa ha fatto ieri contro il presidente della Commissione europea Jean Claude Junker, sul tema dei migranti.
La battaglia ingaggiata da Renzi, in particolare, attiene ad un concetto economico, “output gap“, che consiste nel differenziale tra il pil effettivo di uno Stato e quello potenziale (ad esempio se tutti i disoccupati lavorassero).

Attorno all’output gap è in corso una diatriba europea, che oltre all’Italia vede schierati altri sette Stati membri che ne contestano il calcolo da parte della Commissione europea.
“Trattandosi di una stima – spiega ai nostri microfoni l’economista Giacomo Bracci – non è una grandezza direttamente osservabile e misurabile. Mentre i programmi di stabilità negoziati e concordati con la Commissione hanno una scadenza di 4 anni, le previsioni dell’output gap durano due anni, quindi c’è un disallineamento temporale tra lo sforzo programmato dai governi e le metodologie di calcolo dell’output gap”.

La riforma del metodo di calcolo, chiesta da otto Paesi europei, proprio in questi giorni è stata negata dall’Ue. Il ministro dell’Economia Padoan ha ricordato più volte che questa mancata riforma penalizza l’economia italiana, perché impone al governo di fare manovre più pesanti e restrittive.
Il risvolto, dunque, è che agli Stati viene concessa meno flessibilità sui conti se il valore del differenziale è considerato troppo alto.
“Secondo la filosofia della Commissione europea – osserva Bracci – questo valore dipende dalla quantità e qualità di riforme messe in campo. Che, secondo l’approccio liberista dell’Unione, attengono soprattutto alla protezione, considerata eccessiva, in entrata ed uscita dal mondo del lavoro”.

In altre parole, quindi, la battaglia in corso non è solo economica, ma ha risvolti politici sull’entità e l’efficacia delle riforme messe in campo dagli Stati membri.
Di qui il ritornello ormai ritrito dei “compiti a casa” fatti o non fatti dall’Italia o da altri membri europei, alla base degli “sconti” fatti dall’Europa sulla rigidità dei conti pubblici.

Ma la battaglia ingaggiata da Renzi contro l’Ue è autentica? Veramente adesso ha qualche possibilità di cambiare le politiche di austerity europee?
“I dati ci dicono che nel 2017 l’Italia dovrebbe raggiungere un indebitamento dell’1,8% – afferma l’economista – mentre il governo italiano vorrebbe arrivare fino al 2,3%, chiedendo più flessibilità per le emergenze che ci sono state. Il problema è che manca dal governo italiano un autentico piano B che possa dare all’Italia una maggiore forza negoziale e che possa mettere in atto se l’Europa dice di no”.

Non solo. “Renzi e Hollande nel 2015, quando la Grecia aveva più forza negoziale, non presero posizione in favore di una riforma delle politiche europee che andasse nella direzione di evitare il terzo memorandum – conclude Bracci – Se il cosiddetto Fronte Mediterraneo fosse nato in quella fase, la storia sarebbe potuta andare diversamente“.
La battaglia di Renzi, dunque, appare tardiva e difficilmente potrà portare a risultati di qualche tipo.