A maggio, il M5S ha ipotizzato la chiusura programmata e la riconversione della produzione e dei compiti dei lavoratori dell’Ilva, stabilimento siderurgico tarantino al centro di vicende giudiziarie per reati ambientali commessi dalla famiglia Riva, ex proprietaria dell’industria. Una soluzione per alcuni irrealistica: le ragioni le spiega Vito Mario Laruccia, ex consigliere comunale a Taranto.

Risale a metà maggio la proposta del M5S rispetto alla questione Ilva, l’acciaieria tarantina che tanto ha fatto parlare di sé per i problemi d’inquinamento e di salute causati alla città e per cui adesso è sotto il commisariamento dello Stato. Il suggerimento da parte grillina è stato quello di una chiusura programmata del sito siderurgico, accompagnata dalla riconversione della produzione e delle competenze della forza lavoro. La domanda è quanto questa sia una soluzione concretamente realizzabile, sebbene abbia riscosso un discreto consenso tra i sindacati.

“Dal punto di vista realistico, questa soluzione è impraticabile – sostiene Vito Mario Laruccia, ex consigliere comunale della legislatura Stefano ed impegnato da anni nei fatti che hanno riguardato l’Ilva – la chiusura programmata pone questioni in primissimo luogo occupazionali. Riconvertire  le manzioni dei lavoratori per la bonifica non è così semplice. Formare un operaio poco specializzato è possibile, ma rinformare ad altri compiti un operaio altamente specializzato, per non dire gli ingegneri ed i quadri intermedi, è come riprendersi un’altra laurea”.

Le difficoltà poste dalla chiusura programmata dello stabilimeto siderurgico e dalla sua riconversione non si limitano ai problemi legati alle competenze dei lavoratori. Anche sul fronte ambientale, l’inattività della grande industria non coincide necessariamente con il cessare del suo potere inquinante. “Lo stabilimento chiuso del tutto o in parte – continua Laruccia – è un sito a ridosso della città che sarebbe ancora una formidabile fonte di inquinamento ed inoltre si porebbe il problema ambientale dello stoccaggio del materiale rimanente, che è inquinante”.

Oltre al problema occupazionale ed ambientale, la soluzione grillina non guarderebbe alla questione portuale. Il porto di Taranto, infatti, è strettamente connesso all’impianto siderurgico. “I grandi porti del Nord Europa, ma anche porti italiani come Genova e Trieste, si reggono su tre apporti, ossia il traffico turistico, quello commerciale ed infine quello industriale. A Taranto, dove le prime due fonti di ricchezza sono inesistenti o scarsi, eliminare l’apporto industriale, cioè gli approvigionamenti Ilva ed Eni, significherebbe compromettere qualsiasi sviluppo futuro del porto, che già fatica a partire nelle sue attività”.

Al di là della confusione spesso generata nell’opinione pubblica da un certo modo di condurre il dibattito circa le vicende dell’Ilva, il cuore del problema rimane quello di conciliare le difficoltà pratiche e gli interessi economici con l’urgenza ambientale e sanitaria che Taranto vive. “A disorientare l’opinione pubblica e cittadina è il carattere ideologico della discussione intorno al quesito principe di chiudere o no lo stabilimento che inquina e provoca malattie mortali. C’è chi ritiene aprioristicamente che non si possa coniugare industria ed ambiente e c’è chi sostiene le ragioni dell’industria a prescindere”, continua Laruccia. “Il nodo cruciale della vicenda è mantere in vita lo stabilimento ambientalizzandolo o chiuderlo? Intorno a questo non bisognerebbe dividersi e la cittadinanza, le forze sociali e politiche dovrebbero stimolare un dibattito realistico”.

Marta Campa

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