Di fronte alla piaga nazionale del caporalato, il ministro degli Interni minimizza il fenomeno, sposta il riflettore dal sistema produttivo alla mafia, colpevolizza le vittime e usa uno slogan ambiguo, “svuoteremo i ghetti”, che compiace i sostenitori di sgomberi e ruspe.

È stato già detto, ma lo ripetiamo: lo spin doctor per la comunicazione di Matteo Salvini è davvero bravo. Anche di fronte alla piaga del caporalato, che da Foggia a Gioia Tauro, dall’Agro Pontino a Modena, fino alla piemontese Saluzzo imperversa nel Paese piegando allo sfruttamento decine di migliaia di lavoratori, soprattutto madopera migrante, il ministro degli Interni riesce a rigirare la questione in proprio favore, ponendosi come l’uomo giusto per risolvere i problemi.

Dopo l’incidente di lunedì, che ha visto la morte di 12 braccianti stipati in un furgoncino, ieri è stato il giorno delle visite istituzionali. Nel foggiano si sono recati sia il premier Giuseppe Conte che il capo del Viminale.
Ma mentre il primo ha usato parole condivisibili, ancorché di rito, (“garantire la dignità della vita e la dignità del lavoro”), il discorso di Salvini merita un’analisi del testo per comprendere i punti di forza della sua propaganda (perché di questo si tratta).

Il leader della Lega ha detto: “C’è una legge sul caporalato che per alcuni versi può e deve essere migliorata. Non voglio che l’agricoltura foggiana venga etichettata come fuorilegge perché pochi usano mezzi mafiosi per arricchirsi. Usiamo le parole che bisogna usare: questo non è un problema di manodopera in nero, di caporalato, di furbizia. Questo è un problema di mafia. A Foggia e in provincia di Foggia c’è una criminalità mafiosa che ho intenzione di inseguire via per via, paese per paese, con tutti i mezzi legamente permessi. Cercheremo di aumentare l’organico di procura e questura“.

Ma non è finita. Il ministro ha poi continuato: “Episodi non solo foggiani, ma anche campani e siciliani, dicono che un’immigrazione fuori controllo aiuta la mafia“.
E poi lo slogan che è finito nei titoli dei giornali: “Svuoteremo i ghetti“.
Salvo finire con la difesa campanilistica del made in Italy, che apparentemente c’entra poco: “Se l’Europa non ci costringesse a inseguire l’importazione forzata di pomodori tunisini, arance marocchine, riso birmano, grano canadese per i nostri agricoltori forse vivere sarebbe più semplice“.

In poche parole, il ministro degli Interni è riuscito a compiere un capolavoro di mistificazione della realtà, spostando i riflettori del problema in un’altra direzione, minimizzando il fenomeno, colpevolizzando le vittime ed evocando concetti cari al suo elettorato.
Vediamo questi elementi uno ad uno.

Affermando che “pochi (agricoltori) usano mezzi mafiosi per arricchirsi”, in un colpo Salvini compie due operazioni. La prima è minimizzare il problema, la cui diffusione – come dicevamo – è nazionale. La teoria delle “poche mele marce“, del resto, è un must del linguaggio politico, specie quando si deve stigmatizzare un autore di violenze o reati senza interrogarsi sui problemi dell’intera categoria e, ancora a monte, sul sistema che produce certe storture.

E qui sta il secondo punto, che nel discorso di Salvini viene esplicitato nel passaggio successivo. Il fenomeno, secondo il ministro, non è frutto di un sistema produttivo malato, in cui la Grande Distribuzione Organizzata impone prezzi che strozzano gli agricoltori, che a loro volta si rifanno sui braccianti sfruttandoli per rientrare nei costi. Per Salvini è un problema di “mafia”.
Che vi sia un’organizzazione mafiosa e para-mafiosa della filiera agricola e del caporalato è fuor di dubbio, ma il problema è sistemico e strutturale. E soprattutto è generato dal modello produttivo, che Salvini non si sogna minimamente di mettere in discussione.

Nel foggiano Salvini ha parlato come un leader politico che si rivolge ai suoi elettori e non come un ministro che si reca su un luogo della strage. Lo si evince in tanti passaggi, ma soprattutto quando promette un aumento dell’organico di procura e questura.
Di sicuro, Salvini non parla alle vittime dello sfruttamento e del caporalato. Anzi: arriva a colpevolizzarle, scaricando sulle loro spalle l’esistenza stessa del fenomeno. Il ministro evoca non meglio precisati “episodi”, tutti rigorosamente nel Sud Italia, per affermare senza alcuna spiegazione del ragionamento che “l’immigrazione fuori controllo aiuta la mafia”.

La non volontà di affrontare il problema così come si presenta e di non mettere in discussione le storture del sistema produttivo si esplicita anche quando il ministro, in perfetto stile nazionalista e sovranista, punta il dito contro l’esterno. Se la prende con la Tunisia, il Marocco, la Birmania e, per non sembrare troppo razzista poiché i Paesi citati fino a quel momento sono tutti in via di sviluppo, nomina il Canada. La colpa, dunque, sarebbe delle importazioni “forzate” imposte dall’Europa.

Il capolavoro, però, si compie con lo slogan utilizzato in questo viaggio elettoral-istituzionale: “Svuoteremo i ghetti”.
Una frase di questo tipo è pensata in funzione polisemica. Nessuno, infatti, può dirsi contrario alla chiusura di queste aree della vergogna, in cui le persone sono costrette a vivere nel degrado più assoluto, in baracche di lamiera, senza i servizi minimi per la dignità umana. La chiusura delle tendopoli e dei ghetti è auspicabile anche dagli anti-razzisti, che si immaginano soluzioni dignitose, qualcosa che assomigli davvero ad una casa, per i braccianti.

Salvini, però, non ha annunciato alcun piano, quindi non ha dettagliato cosa significa svuotare i ghetti. Visti i precedenti con i rom, non immaginiamo percorsi di inserimento abitativo.
Svuotare i ghetti evoca lo sgombero e la ruspa, espressioni che hanno fatto la fortuna elettorale dell’attuale ministro degli Interni. Molti di coloro che lo sostengono appagano la propria sete di rivalsa nell’immagine catartica e violenta della distruzione del luogo dove risiede ciò che è stato indicato come il nemico. Pochi (forse nessuno) si pongono il problema di dove andranno queste persone, ancor meno dei diritti umani.