Dopo alcuni episodi di violenza da parte di bande composte da giovanissimi, media e politica fomentano e cavalcano gli episodi parlando di “emergenza baby gang” e qualcuno chiede il pugno di ferro. Il problema è stato presto trasformato in una questione di ordine pubblico, “dimenticandosi” dell’analisi delle cause e di risposte che siano risolutive e non semplice rimozione. Vi proponiamo una riflessione con una pedagogista e un’operatrice.

Nell’Italia del risentimento, dove le frustrazioni non vengono indirizzate in una rivendicazione politica organica, ma le paure e le difficoltà individuali vengono cavalcate per fini meramente elettorali, non stupisce che il tenore del dibattito pubblico attorno ad alcuni casi di violenza agita da bande di giovani e giovanissimi abbia un’impronta giustizialista.
Come per molti altri settori del Paese che non è capace di lavorare sulla progettualità e la prevenzione, ora i mass media parlano di “emergenza baby gang“, come se improvvisamente fosse comparsa una minaccia o un pericolo nuovo.

Le risposte che vengono avanzate a questo fenomeno sono di tipo repressivo: dall’immancabile retorica della sicurezza e dell’ordine pubblico, con la richiesta di maggiori contingenti di polizia ed esercito, fino all’aberrazione del carcere fin in tenera età per gli autori di violenze.
Risposte semplicistiche che non aiutano né a comprendere il fenomeno, con un’analisi seria e impietosa delle cause che l’hanno prodotto, né tantomeno a risolverlo.
Per una riflessione seria sul tema abbiamo intervistato Mariagrazia Contini, docente di Pedagogia dell’Infanzia e delle Famiglie all’Università di Bologna, e Simona Bruni, educatrice che da tempo lavora coi giovani.

Contini, ai nostri microfoni, sottolinea che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi e che, nelle soluzioni proposte, c’è curiosamente violenza come quella che si dice di voler combattere.
Uno dei punti centrali per capire il fenomeno è la forbice sociale ampia che caratterizza il nostro Paese, dove le famiglie arrancano per difficoltà economiche e vengono spinte ai margini da un modello culturale che prevede la centralità e il successo.
La deprivazione affettiva che colpisce i più piccoli, quindi, viene manifestata attraverso uno dei pochi strumenti a disposizione: la rabbia.

In una recente ricerca, Contini ha intervistato un centinaio di pre-adolescenti in diverse città italiana. Uno degli elementi che è emerso è che alcuni di questi sono già rassegnati a non vedere rassegnati i propri sogni e desideri.
I ragazzini che agiscono violenza, in realtà, dovrebbero essere considerati essi stessi vittime ed educati e accolti, non certo puniti e rimossi, tendenza invece di questa fase storica fatta di muri, daspo e chiusure.
La pedagogista, infine, sottolinea gli scarsi investimenti in interventi di strada e prevede che il tema del futuro delle giovani generazioni non entrerà nella campagna elettorale.

ASCOLTA L’INTERVISTA A MARIAGRAZIA CONTINI:

Anche l’educatrice Simona Bruni, che da anni lavora coi giovani, non gradisce la semplicistica ricetta di ordine pubblico proposta per risolvere il problema e sottolinea che esso si manifesta in un contesto generale di crisi socio-culturale che investe tutta la società.
Più che una risposta di ordine pubblico sarebbe invece necessaria una risposta di investimenti in percorsi di prevenzione e inserimento di figure professionali che raggiungano questi ragazzi. Più che i 100 agenti richiesti, dunque, sarebbe meglio avere 100 educatori per le strade.

Centrale, nel discorso di Bruni, il ruolo degli adulti, che sembrano incapaci o addirittura impauriti nell’affrontare la conflittualità dei giovani. Sarebbe invece meglio affrontarla e considerarla anche uno strumento di innovazione.
Inutile, quindi, tentare di incalare i giovani in percorsi controllati, perché ciò non produce il protagonismo giovanile necessario che è alla base della soluzione del problema.

ASCOLTA L’INTERVISTA A SIMONA BRUNI: