Il venerdì pomeriggio del festival si apre con il progetto del batterista Jim Black, vecchia conoscenza di Saalfelden. Il trio del musicista si avvale della collaborazione del chitarrista Nels Cline e del tastierista Elias Stemedeser.  I tre si presentano con un serpente nero tatuato che dal braccio arriva fino all’occhio. Il segno distintivo di una gang musicale: infatti il sound presentato è suono teppista,  irriverente, fatto di energia e punk. Il capo banda è ovviamente Black Jim con il suo drumming ricco di assoluta e perenne invenzione poliritmica, di coloriture timbriche sovrapposte, di un vitalismo percussivo difficilmente ritrovabile nella scena attuale creativa. Non manca naturalmente l’apporto della chitarra di Cline, sia nella fase elettronica sonora che in quella più specificatamente rock. Completa la formazione uno Stemedeser non più intriso di riminiscenze jarrettiane (come lo avevamo ascoltato già in passato), ma come rafforzamento e coloritura della linea chitarristica intorno alla batteria di Black. Nuova musica in cucina qui agli Short Cuts.

Cambia lo scenario nel grande teatro del Main Stage. 

L’onere di aprire questa sezione viene affidato alla formazione austriaca del pianista Philipp Nykrin che presenta una musica non troppo ricca di spunti melodici ed armonici. Probabilmente questo limite viene sottolineato da una sezione ritmica basso/batteria non certamente all’altezza della situazione. Bene il sax e clarinetto basso di Fabian Rucker, mentre la tromba di Mario Rom esegue il compito con diligenza.

Archiviato questo aperitivo arriva il Marc Ribot che non ti aspetti: con la sua chitarra fa rivivere in un festival jazz l’epopea dei Peet Seeger con le “Protest Song”: dalle atmosfere da cantore della 66ma strada,  alle rivisitazioni di “House of Rising Sun”, dalle malinconiche song antimilitariste, alle ironiche descrizioni del potere. C’è spazio anche per le maledizioni di una donna ispanica o per un work song dal sapore più blues.  Chi si fosse aspettato comunque una maggiore rielaborazione strumentale per una chitarra solistica del valore di Marc Ribot deve rimanere deluso, le fasi solistiche sono ridotte al minimo e del tutto funzionali al canto: proibito a tutti quelli che “I don’t speak english !”

C’è qualcosa di nuovo nella musica di Amir ElSaffar, anzi d’antico. Di nuovo sicuramente la new generation della Wind City e le arie medio orientali del trombettista nativo di Chicago e di madre irakena. Di antico le atmosfere di Brooker Little e delle mitiche etichette Candid.

La capacità esecutiva dei sei musicisti non è certo in discussione, a partire dal leader ElSaffar,  nuova stella del firmamento creativo. Così non c’è dubbio nemmeno sulla sezione ritmica del basso di Francois Mutin (ex scuola di Lione) e sulla batteria di Nasheet Waits, percussionista “itinerante” che sempre porta qualità ad ogni ensemble.

La seconda voce viene assicurata dal sax tenore di  Ole Mathiesen, con un fraseggio cool figlio  di Warne Marsh e sviluppi non casualmente braxtoniani. Alla bisogna la voce del sax si fa più nasale e sorda, quasi a citazione di certe sonorità mesopotamiche.

Segnalazione a parte merita il piano di John Escreet, innesto che porta indagine e spessore sia nell’accompagnamento che nei propri assoli, con un’intelligenza interpretativa capace anche di uscire dallo schema di questo hard bop ritrovato del gruppo di ElSaffar.

La notte chiude con il gruppo scandinavo/americano dei Young Mothers, formazione eterodossa che opera una singolare digestione dei tanti linguaggi musicali, dal rap al free, dal heavy metal alle song. Il set è  coinvolgente, la debolezza dei singoli solisti viene resa meno evidente dalla spinta energetica continuamente riproposta al singolo dall’ensemble. Il bassista Ingebrigt Håker Flaten da il -la- ai tempi in sequenza e il resto della band lo segue a ruota, con i fraseggi serrati di Jason Jackson al sax, gli interventi di Jonathan Horne, Capellaio Matto della chitarra, il canto di Jawwaad Taylor, trombettista memore del grande Don Cherry, il drumming torrenziale di Kenneth Kapstad alla batteria, il vibrafono di Stefan Gonzalez all’occorrenza anche vocalist e percussionista. Un set spettacolare che ci tiene svegli nonostante la notte.