Ad un anno dal memorandum firmato dall’Italia con una parte delle autorità libiche, sono 200mila i migranti rinchiusi nei centri di detenzione, dove tortura ed estorsioni sono all’ordine del giorno. L’Italia ha dato soldi, imbarcazioni e supporto agli uomini di Al Serraj, che da trafficanti si sono trasformati in guardiani.

È passato un anno da quando l’Italia ha firmato il memorandum con una parte delle autorità libiche, quelle che fanno capo a Fayez Al Serraj, per il blocco dei flussi migratori nel Mediterraneo.
Era il 2 febbraio del 2017, infatti, quando è stato impresso un cambio di strategia del nostro Paese alle politiche migratorie e i dodici mesi trascorsi hanno visto calare il sipario sui diritti umani in favore della “ragion di Stato”.

Per chiudere la rotta dalla Libia l’Italia e l’Europa hanno pagato profumatamente: milioni di euro, imbarcazioni e assistenza militare. Non è chiaro quanto sia stato l’impegno economico dell’Italia, ma l’Ue aveva promesso più di 200 milioni di euro.
Un dato che riguarda l’esborso del nostro Paese lo ha scovato l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione: 2,5 milioni di euro dei 200 destinati al Fondo Africa sono stati sviati dal ministero degli Affari Esteri a quello degli Interni, che ha utilizzato quelle risorse per finanziare la manutenzione di quattro motovedette della guardia costiera libica.

Tutto ciò è avvenuto ai limiti se non direttamente al di fuori del diritto internazionale e, secondo l’Asgi, anche in violazione dell’articolo 80 della Costituzione italiana.
A corredo, la campagna politico-mediatico-giudiziaria per screditare le ong  e il loro lavoro di ricerca e soccorso, in modo da allontare testimoni. Infine, lo specchietto per le allodole del bando dell’Italia per il miglioramento delle condizioni nei centri di detenzione in Libia.

Secondo Amnesty International sono 200mila i migranti imprigionati nei centri di detenzione nel Paese nordafricano, tra strutture ufficiali e non. In questi luoghi le torture e le estorsioni sono all’ordine del giorno , come hanno denunciato numerosi rapporti di associazioni umanitarie e agenzie internazionali e inchieste, tra cui quella della Cnn che ha testimoniato come i migranti venissero venduti all’asta come schiavi nei mercati libici.
Negli ultimi mesi, i programmi per il “ritorno assistito volontario” dei migranti trattenuti in Libia sono stati estesi: nel 2017 19.370 persone sono tornate nei paesi d’origine. Sono stati attuati positivamente più modesti progetti pilota per il reinsediamento di poche centinaia di rifugiati in Francia e Italia.

Sempre le inchieste giornalistiche hanno svelato come le milizie legate al Al Serraj prima dell’accordo fossero impegnate nel traffico di esseri umani, lucrando sulle partenze, mentre dopo il memorandum si siano trasformate in guardiani delle coste.
Prima del “codice” di Minniti per le ong, quando ancora le navi delle organizzazioni umanitarie operavano nel Mediterraneo, si sono inoltre registrate diverse tensioni con la guardia costiera libica, che non ha avuto problemi a minacciare, intimidire e addirittura speronare le imbarcazioni che salvavano i naufraghi.
La cinica strategia del governo italiano ha pagato: durante l’estate si è registrato un considerevole calo dei flussi migratori, che nel bilancio annuale ha segnato un -34%.

Il governo italiano, però, non si è fermato all’accordo con la Libia. Poco prima dello scioglimento delle Camere, il Parlamento ha approvato il finanziamento di una missione militare in Niger, per un costo di 30 milioni di euro per nove mesi.
Secondo l’Agi, il Niger non è stato informato ufficialmente dall’Italia riguardo alla missione: il governo nigerino ha appreso del dispiegamento del contingente italiano da un lancio dell’agenzia di stampa Afp. Secondo quanto riferisce l’emittente Radio France Internationale, che cita le dichiarazioni di diverse fonti anonime interne al governo di Niamey, le autorità del paese africano hanno già informato il governo italiano di non essere d’accordo con tale missione.