Fmi, Banca Mondiale e Wto fanno retromarcia (fuori tempo massimo) sulle conseguenze nefaste della globalizzazione: hanno paura che i Paesi emergenti sottraggano leadership tecnologica. Intanto il presidente americano Donald Trump si rivela un “No Global” radicale (e di destra). Le sue politiche funzioneranno? Lo abbiamo chiesto all’economista Giacomo Bracci.

Il commercio ha avuto effetti negativi su alcune tipologie di lavoratori e su alcune comunità“. Soprattutto la libera circolazione delle merci declinata alla maniera della globalizzazione. Non è un pensiero di Luca Casarini o di qualche altro ex-leader No Global, ma del Wto (World Trade Organization), una delle sigle molto note nei primi anni del secolo.
L’organizzazione mondiale del commercio, insieme a Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e Banca Mondiale stanno facendo una sorta di mea culpa tardiva sugli effetti della globalizzazione, arrivando a sostenere posizioni molto simili a ciò che dicevano i No Global ormai quasi vent’anni fa.

“Queste dichiarazioni ufficiali – osserva ai nostri microfoni l’economista Giacomo Bracci – sono il risultato di un processo cominciato già da qualche anno. Soprattutto l’Fmi, in alcuni paper, ha iniziato a constatare le conseguenze negative della globalizzazione e a prendere in considerazione l’ipotesi del controllo dei capitali o la protezione di alcuni settori strategici dell’industria occidentale per scongiurare il rischio della perdita di posti di lavoro”.
Il timore che muove questi organismi, spiega l’economista, è quello che i Paesi emergenti possano sottrarre leadership tecnologica e d’impresa ai monopoli occidentali.

Nel frattempo, però, ad annunciare politiche “No Global”, ma in declinazione protezionistica, nazionalista ed isolazionista – quindi di destra – è il presidente statunitense Donald Trump. Nei giorni scorsi ha fatto discutere e gettato allarme la minaccia di porre dazi del 100% sui prodotti importati negli Stati Uniti dall’Europa. Un’ipotesi che porterebbe gravi conseguenze a Paesi che, grazie all’export, hanno resistito ai colpi della crisi economica.
“Fin dal suo insediamento Trump ha cavalcato due selle – sottolinea Bracci – Da un lato quella del mondo finanziario, che è presente nel suo governo, dall’altra la promessa di impedire la fuga di posti di lavoro”.

Se imporre dazi del 100% assomiglia più ad una boutade propagandistica ed irrealistica, Trump però promuove l’idea che il disavanzo commerciale, cioè la differenza tra import ed export, sia un grave problema per l’economia americana.
“Il tema è dibattuto anche in ambito accademico – spiega l’economista – e sicuramente per i Paesi in via di sviluppo il disavanzo commerciale è un problema, ma vi è l’assoluta certezza che per gli Stati Uniti non lo sia, perché la maggior parte delle transazioni avviene in dollari”.

Bracci osserva che, di fronte al problema della disoccupazione, l’Amministrazione americana ha sempre la leva fiscale a disposizione. L’occupazione può essere favorita con investimenti o con detassazioni.
Imponendo dazi ed adottando una politica protezionistica e nazionalista, invece, gli Stati Uniti dovrebbero reindustrializzarsi per produrre le merci bloccate nell’import e non è detto che Trump voglia o riesca mettersi a capo di un tale processo.
I dazi annunciati da Trump, dunque, potrebbero essere un boomerang per gli Stati Uniti stessi.