Il Comune di Roma è stato condannato per il progetto di costruzione di un nuovo campo nomadi durante l’Amministrazione Alemanno. Intanto anche l’Emilia Romagna, su indicazione dell’Europa, prepara il superamento degli insediamenti ghettizzanti.

Le ruspe tanto evocate dal leader della Lega Matteo Salvini sui campi nomadi potrebbero arrivare, ma non come se le immagina lui e nemmeno perché le vorrebbe lui.
Lo scorso 30 maggio il Tribunale civile ha condannato il Comune di Roma per la costruzione del campo nomadi “La Barbuta”, voluto dall’allora sindaco Gianni Alemanno e costato 10 milioni di euro.
A portare il Campidoglio in tribunale, ormai 3 anni fa, furono l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigazione e l’Associazione 21 Luglio, alle quali ora il tribunale ha dato ragione.
Quella struttura, pensata e realizzata per ospitare solamente rom, rappresenta una discriminazione etnica e il Comune di Roma ora dovrà pensare ad altre soluzioni.

“Questa sentenza farà giurisprudenza – osserva ai nostri microfoni Carlo Stasolla dell’Associazione 21 Luglio – e pensiamo possa rappresentare l’inizio della fine dei campi nomadi in Italia”.
L’associazione ha delle idee anche su come si potrebbe procedere ora. Se infatti nella capitale sono stati spesi ad oggi circa 350 milioni di euro per la gestione dei campi, quelle risorse sarebbero potute essere investite, ad esempio, per il recupero del patrimonio abitativo di proprietà comunale lasciato vuoto. Si stima che questo patrimonio copra complessivamente 1400 ettari e recuperarli potrebbe dare una casa a molte persone.

Sono 8mila i rom che vivono a Roma, 180mila quelli che vivono in tutta Italia. Di questi, quattro quinti vivono in abitazioni convenzionali, lavorano e mandano i figli a scuola. La metà sono italiani e un terzo sono cittadini comunitari.
Lo spauracchio sbandierato da Salvini, quindi, viene smentito nei fatti e nei numeri, considerando anche che in Europa risiedono 12 milioni di rom e nella sola Madrid sono 88mila.
L’Italia, però, è la sola nazione ad avere dato vita a campi nomadi, ai tempi della guerra nell’ex-Jugoslavia. “Fu fatta questa scelta per un abbaglio culturale – spiega Stasolla – poiché si riteneva che i rom fossero nomadi e quindi incapaci di vivere in abitazioni tradizionali, quando il nomadismo non esiste più in queste comunità”.

Fin dal 2011 l’Europa ha predisposto una strategia in materia di inclusione per rom e sinti che ha messo al bando i campi nomadi. Ora alcune Regioni, tra cui l’Emilia Romagna, si stanno adeguando, pensando a riforme che portino al superamento dei grandi insediamenti.
In particolare, la giunta di viale Aldo Moro sta preparando una nuova legge regionale per l’integrazione dei 2300 sinti e rom che abitano nella nostra regione, il 95% dei quali è cittadino italiano. I cardini del testo sono il superamento dei campi sosta di grandi dimensioni, la tutela della salute, il sostegno al conseguimento dell’obbligo scolastico e all’inserimento lavorativo. L’alternativa, quindi, è rappresentata da microaree familiari pubbliche e private e il sostegno per iniziative di autocostruzione e autorecupero.

“Sono circa 9 i milioni di euro spesi dal 1988 ad oggi le risorse spese per la gestione dei campi in Emilia Romagna – spiega ai nostri microfoni la vicepresidente della Regione Elisabetta Gualmini – Oggi la situazione è diversificata sul territorio, dove troviamo anche piccoli insediamenti dove le persone pagano regolarmente le utenze”. A vivere nei campi sono soprattutto gli anziani, perché i giovani hanno già fatto la scelta di abitare in appartamenti.
Il testo della legge ora dovrà passare in Assemblea e Gualmini conta di arrivare all’approvazione entro luglio.