Questa mattina ai microfoni del Breakfast club è stato ospite Giuseppe Grosso, corrispondente da Madrid per Il Manifesto, che ci ha fatto una panoramica dell’emergenza abitativa in Spagna, dal punto di vista istituzionale e dei movimenti.

Madrid – Irene González presidia l’uscio della sua casa con le braccia conserte e lo sguardo irrequieto che oscilla tra il capannello di persone davanti a lei e l’imboccatura della calle Quijada de Pandiellos, nel popolare quartiere madrileno di Vallecas. Ad ogni occhiata, un sospiro di sollievo: non si vedono né poliziotti né ufficiali giudiziari. Sono già le 10, trenta minuti oltre l’ora fissata dal tribunale per l’esecuzione dello sfratto, ed è probabile che non verrà nessuno. Glielo sussurra all’orecchio anche la rappresentante della Pah (Plataforma afectados por la hipotéca – Piattaforma colpiti dal mutuo) e un sorriso raggiante le attraversa la faccia stanca da parte a parte. Lo sgombero è rimandato.

Sotto i capelli ricci, gli occhi sono lucidi. Irene dispensa “gracias” a tutti quelli che si sono radunati intorno alla sua abitazione, poi abbandona la guardia della porticina verde ed entra in casa: ne esce con una torta che ha preparato durante la notte insonne “per distrarsi e per festeggiare con tutti quelli che la hanno appoggiata”.

Qualche vicino, intanto, unitosi al gruppetto di volontari della Pah, attacca un coro che suona come un canto di vittoria: “sí se puede, sí se puede”. Hanno ragione, a volte si può. A volte Davide batte Golia, soprattutto se a dargli una mano c’è la Pah, che con un’instancabile campagna di sensibilizzazione è riuscita a bloccare centinaia di sgomberi e a portare al centro del dibattito sociale e politico il dramma degli sfratti, che in Spagna si susseguono al ritmo vertiginoso di 500 al giorno. O, almeno, così è stato finora, visto che ieri mattina l’Unione europea ha bocciato la legislazione iberica (che risale al 1909) rilevando l’abusività di alcune clausole che sbilanciano drasticamente gli equilibri a favore delle banche e violano i diritti del consumatore.

Una boccata di ossigeno anche per Irene, che adesso ha un sassolino in più nella fionda per cercare di colpire in mezzo agli occhi il gigante Caixa Catalunya e tenersi così la casa in cui vive con un figlio di 8 anni e una figlia di 13.  L’appartamento lo ha comprato quasi 12 anni fa – durante il boom edilizio – per 30 milioni di pesetas (circa 180.000 euro) insieme suo marito. “Io non volevo nemmeno comprarlo, ma qui l’acquisto della casa è una specie di traguardo sociale e l’affitto non è un’opzione conveniente a conti fatti”. Soprattutto se si tiene in considerazione che le banche, prima della crisi, hanno speculato sui mutui offrendo finanziamenti al 100% senza garanzie, come nel caso di Irene, che ora vive con la paura di trovarsi da un giorno all’altro senza un tetto sulla testa. “Ma io da qui non me ne vado”, dice accigliandosi un po’. Poi si alza, va nella minuscola cucina e continua come se parlasse tra sé: “devo lottare per i miei bambini”.

La lotta, però, è davvero impari: lei è divorziata, in cassa integrazione, con i due bambini a carico e un terzo figlio ventenne che vive fuori di casa ma lavora saltuariamente. Il marito non c`è: ha abbandonato la famiglia sette anni fa. Come ricordo di sé ha lasciato un buco nella porta d’ingresso grosso come un pugno. “È stato un giorno che era particolarmente arrabbiato”, spiega Irene raccontando tra i denti il suo calvario di vittima di violenza di genere.

Poi il divorzio: “il giudice ha stabilito che il mio ex-marito pagasse le rate del mutuo della casa e io mi occupassi del mantenimento dei figli, perché lui, disoccupato, non riusciva a far fronte ed entrambe le spese – spiega. Per un po’ ha pagato, ma poi ha smesso senza che a me venisse notificato nulla, finché un giorno ho ricevuto direttamente l’ordine di sfratto”. Le rate mensili di 862 euro si sono andate così accumulando e adesso Irene ha un debito di 140.000 euro (gonfiato da folli interessi di mora) per una casa che ne vale 120.000. Con la cassa integrazione che le ha dimezzato lo stipendio, a fine mese entrano circa 500 euro, con cui deve crescere i bambini  e pagare – da quando il governo ha tagliato gli aiuti scolastici – i libri e la mensa.  Provare a saldare i conti è ovviamente pura fantascienza. Ma il dramma è che nemmeno la cessione della casa alla banca estinguerebbe il debito, dato che l’immobile verrebbe venduto per una cifra inferiore rispetto all’ammontare del prestito e la banca resterebbe creditrice della differenza e degli interessi.

“Così, oltre alla casa, vogliono prendermi il futuro. Questa catena che mi lega alla banca è impossibile da spezzare e io rimarrò per sempre nella lista nera dei morosi, il che equivale ad una condanna sociale” – ragiona amaramente Irene. E la cosa peggiore è questa condizione può ricadere sui bambini”. Fa una lunga pausa e tormenta un po’ i fogli che ha tra le mani. “Vorrei solo avere la possibilità di costruirmi un avvenire; per me, ma soprattutto per i miei figli. Penso di meritarmelo”. Intanto è arrivata una lettera del tribunale: la data della prossima esecuzione di sfratto è fissata per il 16 novembre 2014.

Per quanto drammatico, quello di Irene è un caso paradigmatico. Uno dei tanti, purtroppo, che possono servire a dare un’idea del livello di emergenza sociale che la questione della casa ha assunto in Spagna. Una tragica nemesi che ha trasformato il settore bancario e quello immobiliare – le due colonne (di argilla) del boom economico – nei maggiori responsabili del tracollo spagnolo. Secondo uno studio della Pah, esistono molti casi analoghi quello di Irene: l’82% degli sfratti colpisce famiglie con minori; il 65% delle case sgomberate apparteneva a spagnoli, metà dei quali disoccupati. L’entità bancaria più intransigente risulta essere Bankia, responsabile del 16% della totalità degli sfratti. Un accanimento che stride con la recente storia di questa banca, fallita, salvata con soldi pubblici e recentemente nazionalizzata. Al secondo posto nella lista dei mastini, c`è la basca Bbva (12%).

A questa banca Manuela Cuello deve 90.000 euro per un debito che non è neppure suo. Manuela ha 57 anni, è invalida al 66% e vive sola nella sua casa del quartiere operaio di San Blas. “Mia figlia mi chiese di fare da garante per il suo mutuo e io accettai ipotecando la casa”.  Ormai sono anni che sua figlia – con la quale non ha più contatti – non paga la rata mensile di 1.600 euro e Manuela ha già collezionato tre esecuzioni di sfratto. “Finora, con l’aiuto della Pah, siamo riusciti sempre a rimandarli, ma se la prossima volta qualcosa andasse storto, finirei letteralmente in mezzo alla strada”. Manuela, infatti, non ha più né i genitori né i fratelli e non può contare nemmeno su suo marito, allontanato dalla casa coniugale per “gelosia patologica”. Anche lei è vittima di violenza di genere. “Però lui mi passa regolarmente un assegno di 533 euro al mese e con quello vivo”. Ma se la dovessero davvero mandare via, allora, dove andrebbe? Manuela dirige lo sguardo triste verso la finestra, poi si passa il dorso di una mano sotto gli occhi lucidi per asciugarsi un accenno di lacrima: “Io sono sola e disperata: se qui entra la polizia, io mi butto di sotto”. E sarebbe la cronaca di una morte annunciata, da sommare ai sei casi di suicidi legati alla questione degli sfratti, l’ultimo dei quali si è verificato a Mallorca lo scorso febbraio.

Magari esagera, Manuela. Però è scritto anche sul referto medico che la Pah ha portato alla banca cercando di farla desistere dallo sciagurato proposito di mandare sul lastrico una donna invalida, sola, vittima di violenza di genere a malata. Sul documento si legge: “tendenze suicide, depressione, attacchi d’ansia”. Più in basso è indicata una terapia: “Sì, ma non la seguo, perché la sanità pubblica non la copre del tutto e io non ho soldi per le medicine”. Intanto Manuela vive con l’angoscia dell’attesa di un ennesimo avviso di sfratto. Ha provato di tutto per svincolarsi dalla stretta della banca: “sono andata anche alla Caritas per chiedere una casa: non me la danno perché mi hanno detto che in questa Spagna c’è tanta gente che sta persino peggio di me”.

Fonte: Il Manifesto