Finmeccanica e il governo esultano per una commessa dal Kuwait: 28 eurofighters per un affare da 4 miliardi di euro. Gentiloni fa la voce grossa sul caso-Regeni: se l’Egitto non collabora, sanzioni immediate. Ma intanto, come denuncia Opal, abbiamo esportato migliaia di armi verso il regime di Al Sisi.

Non basta l’allarme terrorismo, con gli attentati di Parigi e Bruxelles. Non basta l’uccisione di Giulio Regeni, giovane ricercatore finito vittima della tortura e della violenza del regime egiziano. Gli affari italiani nel settore delle armi sembrano venire prima del rispetto dei diritti umani e delle possibili conseguenze che possono subire gli stessi Paesi che esportano pistole e fucili.

Il governo italiano ha esultato, ieri, per l’accordo stipulato da Finmeccanica con il Ministero della Difesa del Kuwait. Una commessa del valore complessivo di 8 miliardi di euro, di cui la metà appannaggio dell’Italia, per la realizzazione di 28 eurofighters.
Il progetto ha una regia europea e gli aerei dovrebbero avere uno scopo difensivo, ma l’utilizzo è affidato alla buona fede dello Stato verso cui si esportano armamenti. E spesso i luoghi di destinazione rimangono Paesi dove non vige il basilare rispetto per i diritti umani.

È ad esempio il caso dell’Egitto, verso cui l’Italia ha continuato ad esportare armi. Nonostante la decisione del Consiglio dell’Unione europea di sospendere le licenze di esportazione “di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna”, il governo Renzi, dopo aver autorizzato nel 2014 l’invio più di 30mila pistole, nel 2015 ha fornito 3.661 fucili.

Ora l’Italia ha un bel da fare la voce grossa per il caso-Regeni. Gli strumenti di violenza e di morte che sono costati la vita al giovane ricercatore potrebbero addirittura avere il marchio italiano.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ieri, alla vigilia dell’arrivo in Italia degli inquirenti egiziani che indagano sull’uccisione del giovane, ha detto che se non emergerà la verità il nostro Paese è pronto a sanzioni immediate e tempestive nei confronti dell’Egitto.
“Quando si rilevano violazioni dei diritti umani – osserva Giorgio Beretta dell’Opal di Brescia – la prima cosa da fare è non armare quel regime. Invece noi abbiamo continuato a fornire loro armi”.

Gli affari in termini di armamenti, però, potrebbero rivoltarsi contro i Paesi esportatori. Non è solo il caso-Regeni ad insegnarcelo, ma anche il terrorismo che ha colpito nel cuore l’Europa.
“Le forniture di armi in Paesi instabili – sottolinea Beretta – spesso finiscono nelle mani sbagliate e noi potremmo essere vittime delle stesse armi che abbiamo esportato”.

Il disarmista sottolinea come, negli ultimi anni, i ministri della Difesa si siano trasformati in una sorta di promoter delle armi, dal momento che tutti i Paesi europei stanno puntando sull’export. “Ma a chi stiamo dando queste armi? Siamo sicuri che queste armi vengano usate come vorremmo, cioè con scopi difensivi o al massimo come deterrente?”.