Ad un mese dall’entrata in carica di Donald Trump, in Messico regna ancora l’incredulità per i primi atti ed annunci del presidente statunitense. La risposta del presidente messicano Peña Nieto è balbettante e anche la sinistra è confusa. La forte dipendenza dell’economia messicana dagli Usa spunta le armi contro il muro voluto dal tycoon.

Messico alle prese con le politiche di Donald Trump

Se Trump costruirà effettivamente il muro, i messicani troveranno il modo di aggirarlo, anche scavando tunnel. È questa l’ironia e la caparbietà con cui l’uomo della strada messicano reagisce all’idea espressa dal neo-presidente statunitense Donald Trump, che ha annunciato la costruzione dell’ormai famoso muro al confine tra Stati Uniti e Messico.
Ad un mese dall’insediamento del tycoon, però, nel Paese centramericano sembra regnare ancora l’incredulità, da un lato per una vittoria inaspettata, dall’altro perché Trump sembra voler davvero dare seguito a quanto promesso in campagna elettorale.

Il presidente messicano Enrique Peña Nieto sembra balbettare di fronte all’arroganza dell’omologo statunitense. Del resto, come racconta Alessandro Peregalli dal Messico, fu lo stesso Peña Nieto a pontificare e, in un certo senso, a contribuire all’elezione di Trump, accogliendolo a fine agosto durante la campagna elettorale e trattandolo come presidente. Una settimana dopo quell’incontro il funzionario che lo aveva organizzato rassegnò le dimissioni.
“Il presidente messicano – osserva Peregalli – ha cancellato qualche settimana fa l’incontro con Trump già insediato, ma è evidente come non abbia saputo porre argine alle sue politiche”.

Un nodo focale riguarda l’economia. Una delle forme di reazione a Trump evocate è quella del boicottaggio dei prodotti Usa, ma il nostro corrispondente sottolinea come un’iniziativa del genere rischi di rivelarsi un boomerang per lo stesso Messico. “Molti dei prodotti americani venduti in Messico sono lavorati da manodopera messicana”.
Il protezionismo di Trump, del resto, si inserisce in una situazione contraddistinta dalla distruzione dell’economia messicana, che per decenni ha favorito i capitali statunitensi, specialmente nelle esportazioni.
“Da Paese del mais – osserva Peregalli – il Messico si è trasformato in importatore netto di mais dagli Usa. Anche il settore forte dell’economia, quello dei prodotti industriali, è caratterizzato da maquiladoras, fabbriche ad alto sfruttamento del lavoro e dove i capitali, le tecnologie e i profitti sono statunitensi”.

Chiuse le porte a stelle e strisce, il Messico sembra in difficoltà a guardare altrove, in particolare all’America Latina. Il Paese ha costruito relazioni commerciali che hanno voltato le spalle a quella parte del continente. Basti pensare che, secondo le stime della Banca Mondiale del 2014, le esportazioni verso tutti i Paesi latinoamericani raggiungono appena il 4%, mentre oltre l’80% è diretto negli Stati Uniti e a seguire il Canada.

Sul piano politico, inoltre, anche la sinistra sembra in difficoltà nel rispondere a Trump. Il candidato di Morena, la sinistra messicana, Manuel Lopez Obrador, ha annacquato a tal punto le proprie posizioni da essere invitato da Goldman Sachs a Wall Street a presentare il proprio programma.
“Obrador ha invitato anche a sostenere il presidente attuale – osserva Peregalli – con una sorta di richiamo all’unità nazionale che sa tanto di compromesso storico in salsa italiana”.

Secondo il nostro corrispondente, però, sono due le cose interessanti che si stanno muovendo. Da un lato le manifestazioni di protesta organizzate nelle città di confine, come Tijuana e Ciudad Juarez, qualche giorno fa. Migliaia di cittadini hanno formato una catena umana per protestare contro le politiche migratorie del magnate americano.
Dall’altro l’appello lanciato dagli zapatisti a Sexta, la coalizione messicana e internazionale, in cui si spronano le persone a reagire con forme di resistenza e solidarietà.