Nel Comune di Pozzallo, dove insiste un hot spot, Gianluca Costantini, docente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e Ravenna ha tenuto il workshop di graphic journalism, “Disegnare la frontiera” all’interno del festival “Sabir” di Arci e Caritas. “Il centro di identificazione gestito da Frontex è scollegato dal paese e non si può creare empatia”. GUARDA LE IMMAGINI.

Quasi sempre compaiono solo come numeri e troppo spesso come macabri bilanci dei naufragi del Mediterraneo. Su di loro i partiti xenofobi fanno campagna elettorale, agitando gli spettri di insicurezza e terrorismo. La comunicazione attuale attorno ai migranti, dunque, è molto sbilanciata dalla parte europea, rimuovendo quasi completamente le storie delle persone che fuggono da guerre, fame e persecuzioni.
Tra le nuove forme comunicative che stanno prendendo piede anche in Italia, il graphic journalism offre opportunità nuove. Non solo opportunità lavorative per gli studenti delle Accademie di Belle Arti, ma anche opportunità per una narrazione della realtà diversa da quella del giornalismo e del fotogiornalismo tradizionali.

In questa cornice si inserisce “Disegnare la frontiera“, il workshop di graphic journalism che si è tenuto a metà maggio a Pozzallo, all’interno del festival Sabir, organizzato da Arci nazionale e Caritas. Nella città in cui insiste un hot spot, un centro di identificazione dei profughi che sbarcano in Italia, Gianluca Costantini, docente di applicazioni digitali all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e referente del corso di fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna, è stato chiamato a svolgere il laboratorio per raccontare la struttura e il rapporto con la cittadinanza.

“L’hot spot è un centro di identificazione chiuso, gestito da Frontex – racconta il docente ai nostri microfoni – quindi la popolazione vive in modo distaccato la sua presenza. Non ci sono più gli sbarchi sulle spiagge, perché i migranti vengono intercettati in mare, quindi le persone non possono aiutare chi è in difficoltà”. Una procedura di gestione dei flussi che, sottolinea Costantini, non permette alla popolazione di maturare empatia verso i profughi.

Una decina di studenti e studentesse, provenienti da tutta Italia, ha partecipato al laboratorio, svolgendo un lavoro di tipo giornalistico attraverso interviste alla popolazione e traducendo in disegni il materiale che hanno raccolto. “Tra gli elaborati prodotti – racconta il docente – c’è chi ha riprodotto immagini forti sull’hot spot, sul profugo e su Frontex, e chi invece ha raccontato ciò che ha captato in città e, in particolare, la separazione netta che esiste tra la popolazione e il centro”.

“È stata un’esperienza forte – racconta Giorgia Tampieri, una delle studentesse che hanno partecipato al workshop – Io ho realizzato tre grafiche”. Una di queste, intitolata “L’equilibrista“, rappresenta il piede di un profugo che cammina sul filo spinato. “L’Europa ha pensato che il filo spinato fosse una soluzione – osserva la studentessa – Io non posso nemmeno immaginare quello che hanno vissuto quei ragazzi, che fanno di tutto, persino sciogliersi le impronte digitali nell’acido, pur di non essere rimpatriati”.