Persecuzioni, catastrofi umanitarie, guerre, commercio di armi, demonizzazione di gruppi in base all’identità, crisi globale dei rifugiati, odio e paura cavalcati dalla politica, criminalizzazione della solidarietà, violenza di genere, strette sui diritti col pretesto del terrorismo, hate speech e fake news. Il rapporto di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo traccia un quadro disperato.

La Dichiarazione universale dei diritti umani è stata promulgata appena 70 anni fa ma, a leggere il rapporto annuale di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo, sembra già carta straccia.
Tante le crisi, le guerre, le persecuzioni e le restrizioni in giro per il mondo, ma la cosa che inquieta ulteriormente è che il non rispetto dei diritti umani interessa sempre più anche l’Europa e altri stati che non molti anni fa rivendicavano il loro ruolo di difensori e paladini della libertà e dei diritti umani.
Il rapporto, pubblicato oggi, contiene una dettagliata analisi dei tanti fronti su cui, con diversi livelli di gravità, la violazione dei diritti umani viene agita.

Uno dei punti riguarda la persecuzione su base etnica. Il caso più eclatante è quello della campagna militare di pulizia etnica contro la popolazione rohingya in Myanmar, che in poche settimane ha causato un esodo di circa 655.000 persone verso il vicino Bangladesh, la crisi dei rifugiati esplosa più velocemente del 2017. “I segnali d’allarme erano evidenti da tempo in Myanmar – scrive l’organizzazione umanitaria – discriminazione e segregazione su larga scala erano diventate la normalità, in un regime equiparabile all’apartheid, e per molti anni la popolazione rohingya è stata demonizzata e privata delle condizioni basilari per vivere in dignità”.
La tendenza di leader e politici a demonizzare interi gruppi sulla base della loro identità, però, ha attraversato tutto il pianeta. Con conseguenze drammatiche.

Un “posto d’onore”, nel rapporto, continuano ad averlo i conflitti, alimentati dal commercio internazionale di armi, in cui l’Italia gioca un ruolo di primo piano.
Sia nella catastrofe umanitaria dello Yemen, esacerbata dal blocco imposto dall’Arabia Saudita, o nelle uccisioni indiscriminate di civili compiute dalle forze governative e internazionali, nell’uso dei civili come scudi umani da parte dello Stato islamico in Iraq e Siria o nei crimini di diritto internazionale che portano a enormi flussi di rifugiati dal Sud Sudan, talvolta le parti coinvolte nei numerosi conflitti del mondo hanno rinunciato anche a fingere di rispettare i loro obblighi di protezione dei civili.

Un capitolo è dedicato alla crisi globale dei rifugiati, che sempre più vengono considerati problemi da evitare. ” Il tentativo di Donald Trump di vietare l’ingresso a tutti i cittadini di diversi Paesi a maggioranza musulmana, sulla base della loro nazionalità – scrive Amnesty International – è stato evidentemente una mossa dettata dall’odio. La maggior parte dei leader europei è stata riluttante ad affrontare la grande sfida di disciplinare la migrazione in modo sicuro e legale e ha deciso che, in pratica, niente è vietato nell’intento di tenere i rifugiati lontani dalle coste del continente”.
Le conseguenze inevitabili di questo approccio sono state evidenti negli scioccanti abusi subiti dai rifugiati in Libia, con la piena consapevolezza dei leader europei, sottolinea l’organizzazione umanitaria.

L’odio razziale e la paura, però, non vengono contrastati, ma anzi vengono cavalcati dalla politica, che li utilizza in chiave elettorale. “In Austria, Germania e Paesi Bassi, alcuni candidati hanno cercato di trasformare le preoccupazioni sociali ed economiche in paura, attribuendo la colpa in particolar modo a migranti, rifugiati e minoranze religiose – si legge nel documento – In Kenya, le elezioni presidenziali di agosto e ottobre sono state guastate da intimidazione e violenza, anche basate sull’identità etnica”.
Ciò provoca anche una polarizzazione e una contesa degli spazi pubblici. Mentre in Polonia e Usa ci sono stati grandi raduni per chiedere che la tutela dei diritti umani non sia minacciata, un’imponente marcia nazionalista con slogan xenofobi a Varsavia e un raduno di fautori della supremazia bianca a Charlottesville hanno reclamato politiche profondamente antitetiche ai diritti umani.

Per contro, chi si batte per il rispetto o il ripristino dei diritti umani è oggetto di criminalizzazione, spesso cruda.
In Polonia, un grave attacco all’indipendenza della magistratura ha portato in strada un gran numero di persone. In Zimbabwe, a novembre, a decine di migliaia hanno marciato con determinazione per portare a compimento la loro battaglia decennale contro le politiche autoritarie e per chiedere vere elezioni nel 2018, in cui la volontà del popolo possa essere liberamente espressa. In India, la crescente islamofobia e un’ondata di linciaggi di musulmani e dalit hanno provocato indignazione e proteste, accompagnate dallo slogan “Non nel mio nome“.
In Turchia, l’attacco spietato e arbitrario alla società civile, sull’onda del fallito colpo di stato del 2016, è continuato a ritmo serrato, colpendo il presidente e la direttrice di Amnesty International Turchia, insieme a migliaia di altri.

La Cina ha messo in atto un giro di vite, prendendo di mira persone e organizzazioni percepite come critiche verso il governo. In Russia centinaia di manifestanti pacifici, passanti e giornalisti sono stati arrestati; in molti sono andati incontro a maltrattamenti, detenzioni arbitrarie e pesanti multe, inflitte in seguito a processi iniqui. Nella maggior parte del continente africano, l’intolleranza verso le proteste pubbliche è stata palese in modo allarmante, dai divieti arbitrari in Angola e Ciad, alla pesante repressione nella Repubblica Democratica del Congo, in Sierra Leone, Togo e Uganda. In Venezuela, centinaia di persone sono state detenute arbitrariamente e molte altre hanno subìto le conseguenze dell’uso eccessivo e illegittimo della forza da parte delle forze di sicurezza, in risposta alle diffuse proteste pubbliche contro l’aumento dell’inflazione e la carenza di cibo e farmaci.

In Egitto, le autorità hanno duramente limitato la libertà di criticare il governo, chiudendo o congelando i beni delle Ong, emanando leggi draconiane, che prevedevano cinque anni di carcere per la pubblicazione di un ricerca senza il permesso del governo, e condannando giornalisti e centinaia di oppositori politici a pene carcerarie. Mentre l’anno volgeva al termine, in Iran è iniziata un’ondata di manifestazioni contro l’ordine costituito, come non se ne vedevano dal 2009. Sono emerse denunce secondo cui le forze di sicurezza hanno ucciso e ferito manifestanti disarmati, facendo ricorso ad armi da fuoco e a un uso eccessivo della forza. A centinaia sono stati arrestati e detenuti in carceri note per l’uso della tortura e di altri maltrattamenti.

Spesso a “legittimare” le strette repressive è stata la retorica della sicurezza nazionale e dell’antiterrorismo, che hanno continuato a fornire una giustificazione ai governi che cercavano di cambiare l’equilibrio tra poteri dello Stato e libertà personali.
L’Europa ha continuato a scivolare verso un stato caratterizzato da misure di sicurezza semipermanenti. La Francia, ad esempio, ha messo fine allo stato d’emergenza a novembre, ma solo dopo aver adottato una nuova legge antiterrorismo, che ha introdotto nella legge ordinaria molte delle disposizioni del regime di emergenza.

Sempre nel rapporto troviamo spazio anche al tema della violenza di genere. Sistematica, transculturale e transnazionale, la violenza contro le donne ha suscitato però un movimento di indignazione globale, attraverso la campagna #MeToo.

L’odio in rete, attraverso l’hate speech e le fake news completano il quadro. L’impatto delle notizie false, come mezzo per manipolare l’opinione pubblica, è stato ampiamente discusso in tutto il 2017. “Le possibilità date dalla tecnologia di confondere la realtà e la finzione potranno solo crescere nel futuro – pronostica Amnesty – facendo sorgere importanti domande in merito all’accesso delle persone all’informazione. Queste preoccupazioni sono aggravate dalla concentrazione estrema nelle mani di solo poche aziende del controllo sulle informazioni che le persone vedono online e da un’enorme asimmetria di potere tra i singoli individui, le compagnie e i governi, che controllano una vasta quantità di dati”. Le potenzialità che ne derivano per influenzare la mentalità della gente sono immense, mette in guardia l’organizzazione, compreso il pericolo dell’incitamento all’odio e alla violenza, praticamente senza controllo.

ASCOLTA L’INTERVISTA A RICCARDO NOURY, PORTAVOCE DI AMNESTY INTERNATIONAL: