Il dietrofront di Merola sulla vendita di azioni Hera, che ha sollevato le preoccupazioni dei piccoli Comuni soci della multiutility, potrebbe essere un esempio. A sostenerlo è Maurizio Lunghi della Cgil di Bologna, che spiega come la delibera che cambia gli equilibri societari potrebbe essere un’arma di contrattazione con le banche.

Il dietrofront del sindaco di Bologna Virginio Merola sulla vendita delle azioni Hera ha sollevato non poco malcontento nei piccoli Comuni, soci minori di Hera. Molte amministrazioni si stanno interrogando su come comportarsi sulla delibera che modifica il patto di sindacato e lo statuto della società, introducendo la possibilità di scendere dal 51 al 38% di partecipazione pubblica.
In particolare sindaci e assessori si chiedono che senso abbia aprire a questa possibilità dal momento che un grosso azionista come il Comune di Bologna non modificherà la propria partecipazione societaria.

Una risposta alle preoccupazioni degli amministratori arriva dalla Cgil di Bologna, per bocca del segretario Maurizio Lunghi che risponde ai malumori sostenendo che in un certo senso quello di Merola sia un esempio da seguire.
“Se c’è bisogno di rivedere il patto si sindacato – sostiene Lunghi ai nostri microfoni – perché negli anni sono cambiati gli equilibri a causa della vendita di azioni non vincolate dal patto da parte di alcuni Comuni in giro per l’Italia, si può arrivare a stabilire un nuovo equilibrio senza però vendere le azioni“.

I piccoli Comuni, sulla scia di quanto fatto dal capoluogo, dunque, potrebbero approvare la tanto discussa delibera, consentendo quindi, solo formalmente, una discesa della quota pubblica al 38%, ma decidendo contestualmente di non vendere le azioni non vincolate dal patto, in modo da restare al 51%.
Un’operazione finanziaria sottile, che non risolve completamente e definitivamente il rischio di privatizzazione della società, ma che secondo il segretario della Cgil potrebbe costituire anche un’arma di contrattazione con le banche per l’erogazione del credito.

“I Comuni possono liberare un 10% di azioni senza però venderle – spiega Lunghi – ma utilizzandole in una chiave di prestito con le banche qualora ci sia bisogno di impegnare dei soldi e riscattandole quando il debito con le banche sarà saldato”.
In questo modo le azioni rimarrebbero di proprietà dei Comuni, cosa che non avverrebbe qualora invece si mettessero sul mercato.
Resta però da vedere se le singole amministrazioni, entrando in possesso di un potenziale gruzzoletto rappresentato dalle azioni liberate dal patto di sindacato, decideranno comunque di non venderle anche in caso di problemi con la quadratura del bilancio.