Il tema della violenza di genere ha fatto finalmente breccia nel sistema mediatico, ma le prese di posizione da parte degli uomini, tanto evocate, rischiano di essere solo testimonianze. Prima occorre una riflessione profonda ed un’auto-analisi. Fino alla condanna sociale.

Sono 14 anni che l’Onu ha istituito, per il 25 novembre, la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne e sono 8 anni che questa ricorrenza viene celebrata in Italia, anche se il sistema mediatico italiano sembra esserne accorto solo in questo 2013.
Tante parole sono state spese in questi giorni, molte anche da parte di chi, non avendo una minima infarinatura sul tema, si sente in dovere di dire qualcosa perché l’argomento è in voga.
Si sono forniti i dati, che nel nostro Paese non sono ufficiali poiché manca un osservatorio istituzionale, si sono raccontate a sprazzi alcune dinamiche del fenomeno, si è detto con molta facilità che le donne devono ribellarsi, a volte senza tenere conto di quale è il contesto socio-culturale in cui si consumano le violenze. Si è anche accennato, forse per la prima volta in modo corposo, al ruolo degli uomini.

Quest’ultimo è un dibattito tutto da sviluppare e che merita una discussione ampia, approfondita e non certo facile. Non è semplice perché, anzitutto, serve che gli uomini accettino di mettersi in discussione e siano disposti a rivalutare un modello che, ancora oggi, è tanto stereotipato quanto veicolato e promosso dalla comunicazione verbale e visiva.
In questi giorni ho sentito alcune attiviste giustamente pretendere una presa di posizione pubblica degli uomini contro la violenza. Una richiesta legittima, ma che a mio avviso deve essere preceduta da un processo di analisi ed autoanalisi maschile che, a parte qualche piccolo gruppo avanzato, ancora manca.

Per un uomo – e scrivo facendo parte della categoria – affermare pubblicamente la propria contrarietà alla violenza di genere non costa tanto. Esprimere solidarietà alle vittime e opporsi formalmente ad una cosa tanto aberrante è abbastanza facile.
Altra cosa è, invece, passare dalle parole ai fatti, avere un comportamento quotidiano che si spogli dagli stereotipi (e dagli indubbi vantaggi) dell’appartenenza di genere, non cedere alle battute sessiste, al corporativismo maschile, a quelle dinamiche che abbiamo tutti introiettato perché “educati” in questo modo, non deresponsabilizzarci di fronte ad una cultura che ci induce a comportarci in un certo modo, anche se formalmente la contestiamo.

Da questo punto di vista, il lavoro da fare è enorme. Dobbiamo lottare contro quello che ci hanno sempre detto essere “normale” o “naturale”. Per molti di noi è normale e scontato che sia la donna a dover fare le faccende domestiche, anche se ci diciamo sostenitori dell’emancipazione femminile. Per noi è normale diventare “compagni di giochi” dei nostri figli, mentre il ruolo di genitore lo svolge quasi solo la donna. Per noi è normale che in un litigio sia la donna a mantenere la calma e il controllo, mentre a noi è consentito “per rabbia e non per violenza” alzare la voce o insultare. E via di questo passo.
E poi ancora le dinamiche sociali. Le battute, le risatine, il linguaggio truce a cui cedono anche gli uomini più sinceramente convinti della parità dei sessi. E se ci viene fatto notare che sono, per quanto ironiche, delle espressioni che ricalcano una cultura che genera la violenza, reagiamo seccati da tanta serietà e pedanteria, magari rifugiandoci nel gruppo, che assomiglia più ad un branco.

Finché non saremo stanchi di recitare questa parte, di interpretare un ruolo che ci vuole stupidamente virili, le prese di posizione pubbliche incideranno ben poco sul reale cambiamento. Saranno attestati poco importanti, da tenere in soffitta proprio come il diploma di terza media.
Dobbiamo invece arrivare al punto che l’apprezzamento sessista non ci susciti alcun moto di spirito, al punto in cui ci venga naturale discutere insieme alle nostre compagne la suddivisione e l’organizzazione dei lavori domestici e le forme di linguaggio più rispettose per gestire i naturali conflitti.
Dobbiamo arrivare al punto che l’uomo violento sia considerato come quello che si infila le dita nel naso in pubblico: uno sfigato che suscita ribrezzo. La violenza maschile deve subire la condanna e lo stigma sociale e ciò da parte di tutti gli uomini che rifiutano di essere considerati parte di una categoria capace di bestialità.
Solo a questo punto potremmo considerarci veramente liberi.