Il week-end che ci siamo lasciati alle spalle ha visto sfilare in tutto il mondo l’orgoglio gay. Dagli Stati Uniti all’Italia, dall’Irlanda alla Turchia, chi si batte per il riconoscimento dei diritti delle persone lgbt può trarre un bilancio diverso, tra l’orgoglio per un grande risultato ottenuto e l’amarezza per chi vede ancora negati quei diritti, se non repressi con la violenza.

Gay Pride in giro per il mondo: sensazioni a freddo

Sono tantissimi i cortei arcobaleno che sono sfilati nelle strade e nelle piazze di tutto il mondo, nell’ultimo fine settimana. Il weekend dei Gay Pride ha colorato le città degli Stati Uniti e dell’Europa, ma non solo. Se il filo conduttore delle diverse manifestazioni è stato l’orgoglio sincero di chi è sceso in piazza per esprimere liberamente la proprio sessualità e manifestare per i diritti lgbt, ciò che resta è un bilancio fatto di luci e ombre. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’orgoglio gay ha potuto festeggiare la sentenza della Corte Suprema che ha dato il via libera ai matrimoni tra persone dello stesso sesso in tutti gli stati del paese. In Irlanda è ancora fresca la vittoria del sì al referendum dello scorso maggio per legalizzare i matrimoni omosessuali. Dalla parte opposta, invece, non si può non sottolineare l’amarezza per quanto accaduto in Turchia, a Istanbul, dove i manifestanti gay sono stati attaccati e dispersi dalla polizia a colpi di idrante e proiettili di gomma. In Italia, infine, chi è sceso in piazza si trova ancora nella condizione di non vedersi riconosciuto alcun diritto di uguaglianza. Il nostro paese, come è noto, è infatti fanalino di coda europeo per quanto riguarda i diritti delle persone lgbt.

Abbiamo fatto un bilancio del Gay Pride che è stato, a Bologna ma non solo, con Vincenzo Branà, presidente del Cassero LGBT Center, che il 28 giugno ha festeggiato i 33 anni dalla sua fondazione.

Branà, che bilancio si può fare del Gay Pride di sabato scorso?

“È stata una manifestazione densa, piena di persone, di messaggi, di colori e di identità che si sono incontrate e mischiate in una piazza. È stato il segno di una grande coalizione che può nascere per richiamare la politica a impegnarsi per i diritti. Noi siamo nel mezzo di una trattativa estenuante per quanto riguarda i diritti delle persone gay lesbiche e trans, e ogni legge diventa tema di una trattativa. In realtà come ci ha insegnato la sentenza degli Stati Uniti alla domanda di diritti si risponde sì, e questo credo che accomuni tutti i gruppi e le identità che ancora chiedono il riconoscimento dei propri diritti, la comunità lgbt ma non solo, le donne, le persone senza fissa dimora, chi occupa le case, i migranti che abbiamo visto dormire sugli scogli. Insomma c’è un tema dei diritti che deve essere messo al centro della politica, deve diventare davvero un istinto”.

Come giudichi il fatto che molto spesso è la giustizia, attraverso sentenze dei Tribunali o pronunciamenti della Corte Costituzionale, a esprimersi in favore del riconoscimento di certi diritti, mentre la politica ancora tentenna?

“Il paradosso è che in Italia per rivendicare un diritto hai bisogno di un buon avvocato. E questo è il caso ad esempio di Alessandra Bernaroli, che era sul palco insieme a noi sabato, e che si è vista restituire il matrimonio dopo che era stato applicato un divorzio d’ufficio. Questo vuol dire che la politica non è in grado di fare proprio il senso di giustizia, perché quando deve intervenire la magistratura vuol dire che quel senso di giustizia è venuto meno. È una cosa importante perché quando la giustizia è chiamata a pronunciarsi lo fa richiamandosi a principi cardine, lo ha fatto la Suprema Corte degli Stati Uniti richiamandosi al principio di uguaglianza. Ebbene, anche i nostri padri costituenti avevano iniettato questi principi nella nostra Costituzione, che andrebbe intesa come un grande tema da svolgere. Noi dopo 70 anni stiamo tentando di riscriverla con un grande atto di arroganza. Invece nell’articolo 3 della Costituzione è inserito il seme di un’uguaglianza che ancora deve essere completamente realizzata nel nostro paese. È un messaggio che la politica deve far proprio, quella carta non è un ostacolo da aggirare, è una grande occasione da realizzare”.

In molti vedono il progetto di legge al vaglio del Parlamento come nato già vecchio, rispetto a quello che sta accadendo nel resto del mondo. È così?

“Lo è assolutamente, anche nella concezione culturale, perché non riesce a parlare di matrimonio, anzi aggira questo termine, e sceglie di trasformare il contratto tra due persone dello stesso sesso in una lista di diritti. E questo ci fa capire come ci sia una trattativa e si cerchi di dosare un diritto, e questo sì che è contro natura. E poi si rimane avvolti in una sorta di ipocrisia su tanti temi, come quello della genitorialità, in cui si concede un pezzo di genitorialità però costringendo le persone lgbt ad essere migranti d’amore”.

Abbiamo visto che tra tutti i gay pride che si sono tenuti in questo fine settimana quello della Turchia, a Istanbul, è stato segnato dagli attacchi della polizia ai dimostranti. Nessuno sembra avere alzato un dito contro Erdogan.

“Non solo, noi soffriamo di una strana mancanza di lucidità. Pensiamo che quello che accade intorno a noi non ci riguardi, soprattutto in tema di persone lgbt. Se guardiamo una mappa che ILGA-Europe ha diffuso si vedono i paesi in cui l’omosessualità è perseguita per legge, e sono tutti paesi intorno a noi. E questa è una questione di politica internazionale fondante, soprattutto perché ci troviamo di fronte a un tema, quello delle migrazioni, che sta diventando un’emergenza e non riusciamo ad affrontare. Andiamo all’origine di queste migrazioni, e scopriremo che molte di queste alla base hanno la fuga dalle persecuzioni. Quello che è successo in Turchia ci fa fare un enorme passo indietro e moltiplica un’immagine che non dobbiamo vedere, cioè questi omosessuali dimostranti affrontati a colpi di idrante danno il senso di una repressione insopportabile per un paese che affaccia sul Mediterraneo e che con noi deve condividere culture e mercati. È un tema che ci riguarda moltissimo, perché saremo chiamati noi a comunicare con questi paesi e a dare accoglienza alle persone che fuggono da questi paesi”.

Il 28 giugno il Cassero ha compiuto 33 anni. Che bilancio fai della storia e dell’attività di questa realtà, importante per Bologna ma non solo?

“La storia del Cassero è una storia lunga che si scrive già con la S maiuscola. Il film di Andrea Adriatico, Torri Checche e Tortellini, ne racconta l’origine. Racconta l’impresa di chi seppe chiedere e ottenere da un’amministrazione pubblica una sede per le persone lgbt. Non è solo un tratto di storia anedottica, c’è dentro un significato molto importante. Prima di allora le comunità lgbt non avevano luoghi fisici, si mischiavano nella città, in quel momento una comunità si coagula in un luogo fisico in una città e alza la testa. È stato un prendere parola nel dibattitto pubblico che è rimasto tale dall’82 fino a doggi, con modi e linguaggi diversi, però l’importante è riuscire ad essere un centro di parola e di pensiero, e questa è la vocazione che il Cassero non ha mai tradito”.

Di questi tempi trovano spazio a Bologna sempre più spesso realtà che manifestano per negare i diritti ad altre persone, come le Sentinelle e gli antiabortisti.

“Ciò che non è legittimo è il fatto che entrino in un dibattitto come se fossero opinioni nel merito. Ci sono cose che non sono opinabili, come i diritti. Quando ci si oppone al riconoscimento di coppie formate da persone dello stesso sesso si sta trasformando la dimensione della famiglia in un privilegio. Chi combatte questa battaglia lo fa perché ha un senso della storia ormai trapassato, ma il vero problema è chi include quelle posizioni nel dibattito e le fa pesare. Io credo che dovremmo fare un salto in avanti e dirci che su certe cose non ci sono opinioni, ma solo urgenze a cui rispondere sì. Non è una mia ambizione andare in piazza a constrastare le sentinelle, il loro punto di vista non può essere incluso nel dibattito perché quello sì che è contronatura”.