Dagli arresti sul contrabbando di gasolio al traffico di migranti, dall’omicidio della giornalista Daphne Galizia all’accordo sui flussi tra Italia e Libia. I torbidi affari delle milizie libiche si intrecciano con le mafie italiane e lambiscono il governo che ha fatto accordi con Al Serraj per fermare i flussi migratori. L’intervista alla giornalista Nancy Porsia.

Situazione Libia: La mafia la fa da padrone

È un puzzle davvero torbido quello che emerge mettendo insieme tutti i tasselli che abbiamo a disposizione su quanto accade lungo gli appena 108 kilometri di costa libica che vanno da Zuwara a Tripoli. In quel breve tratto della Libia settentrionale convergono traffici, interessi e affari che vanno ben oltre il Paese nordafricano, ma chiamano direttamente in causa l’Italia e l’Europa.
L’inchiesta della Guardia di Finanza di Catania e il Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata (Scico) mercoledì ha portato all’arresto di nove persone, tra italiani, maltesi e libici, dedite al traffico di gasolio verso le raffinerie italiane e il mercato europeo.
Un caso giudiziario che a prima vista può sembrare isolato, ma che invece si intreccia con le guerre intestine tra milizie e fazioni libiche, attività criminali e interessi politici.

L’INCHIESTA SUL FURTO E RICICLAGGIO DI GASOLIO
La Guardia di Finanza di Catania ha sgominato ieri un’associazione a delinquere internazionale che riciclava gasolio libico rubato dalla raffineria di Zawyia , a 40 kilometri a ovest di Tripoli, trasportato via mare in Sicilia e successivamente immesso nel mercato italiano ed europeo. L’indagine ha accertato che, dopo il furto, il gasolio veniva scortato da milizie libiche e portato in Sicilia, per  poi essere immesso nel mercato italiano ed europeo mediante una società maltese.
AI nostri microfoni, la giornalista freelance Nancy Porsia ricorda che le autorità di Zawyia, nel cui porto è presente la raffineria da cui veniva sottratto il gasolio, sono le stesse a cui l’Italia offre supporto.

MALTA E I POSSIBILI COLLEGAMENTI CON L’OMICIDIO DI DAPHNE GALIZIA
Malta è stata protagonista delle cronache degli ultimi giorni anche per un’altra vicenda, che potrebbe non essere scollegata: l’omicidio della giornalista dei Panama Papers Daphne Caruana Galizia attraverso un’autobomba. Le indagini sulla sua morte puntano sulla mafia e i legami con i trafficanti di petrolio libico nell’isola del riciclaggio. Secondo alcune indiscrezioni circolate sulla stampa, l’espolosivo che ha provocato la morte della giornalista sarebbe di origine militare.

GLI ARRESTATI
A finire in manette, ai domiciliari o ad essere ricercate nell’inchiesta di Catania sono nove persone, di cui proprio due maltesi, due libiche e quattro italiane. Tra loro figura Marco Porta, amministratore delegato della MaxCom, società che effettua distribuzione di prodotti petroliferi e procura rifornimenti ad aeromobili militari e civili. Un altro italiano arrestato è il catanese Nicola Orazio Romeo, indicato dai collaboratori di giustizia come uomo legato alla cosca mafiosa degli Ercolano. I cittadini maltesi oggetto di provvedimenti restrittivi sono Darren e Gordon Debono, mentre i cittadini libici sono Tareq e Fahmi Mousa Saleem Ben Khalifa, uno dei più potenti capi delle milizie libiche dedito al traffico di gasolio.

LA GUERRA TRA FAZIONI
Quest’ultimo risulta già detenuto in Libia e la storia del suo arresto apre un ulteriore scenario, che porta direttamente all’accordo tra l’Italia e la Libia. In particolare, secondo quanto ricostruito da Panorama , “il 23 agosto scorso un commando di sette uomini delle ‘forze di deterrenza’ Rada, la milizia islamista diventata unità speciale del ministero dell’Interno di Tripoli, sbarca da un elicottero a Zuwara. Ad attenderli dei reparti locali che guidano verso l’obiettivo gli uomini di Abdul Rauf Kara, il salafita schierato con il governo di Al Serraj riconosciuto dall’Onu. Il commando irrompe nella villa di Fahmi Salim Mousa Bin Khalifa, che finisce in manette e viene trasferito nella capitale. Salim aveva spostato le sue attività criminali a Sabratha e avrebbe potuto riattivare i barconi di migranti a Zuwara. Un ostacolo alle mosse italiane per tamponare le partenze dei migranti dalla Tripolitania“.

Secondo le fonti di Porsia, però, Khalifa non era più dedito al traffico di migranti almeno dal 2008. Il suo arresto spettacolare, piuttosto, si configurerebbe come un’azione mediatica dei reparti Rada per consegnare un nome e assecondare la narrativa italiana. Se è vero che i Rada, in quanto salafiti, sono acerrimi nemici dell’Isis, in quanto diretti competitor, Khalifa non sarebbe affiliato allo Stato Islamico, contrariamente a quanto scritto dai quotidiani italiani.

I CRIMINALI “AMICI” DELL’ITALIA
Dunque l’arresto di Fahmi Mousa Saleem Ben Khalifa si configura all’interno di una guerra tra milizie e fazioni per il controllo del territorio e non certo per il contrasto alle attività criminali (tra cui il traffico di esseri umani e quello del petrolio), che vengono portate avanti da ogni fazione.
Anche le milizie fedeli ad Al Serraj, infatti, sono invischiate in traffici illegali. Ormai molte inchieste giornalistiche dimostrano come, prima dell’accordo voluto dal ministro degli Interni Marco Minniti, gli stessi miliziani che ora pattugliano e bloccano i flussi migratori fossero proprio i trafficanti di migranti.

DABBASHI E IL BUSINESS DI PETROLIO E MIGRANTI
Una figura chiave è Ahmad Dabbashi, detto “Al Ammu” (lo zio), contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, ora poliziotto anti-migranti ben remunerato, operativo nella Tripolitania occidentale, in particolare a Sabratha, uno dei principali rubinetti dei flussi migratori.
Secondo un’inchiesta della giornalista freelance, nel luglio del 2015, due settimane dopo il rapimento di Fausto Piano e Salvatore Failla, dipendenti della Bonatti di Parma (poi uccisi nel marzo 2016), Dabbashi ottenne dal Noc (la società nazionale petrolifera libica) l’incarico di responsabile della sicurezza esterna del compound Mellitah, a guida Eni.

I FONDI ITALIANI PER FERMARE I BARCONI
Quello Dabbashi, in realtà, è un clan che vede fratelli e cugini a guida di diverse unità di milizie, tra cui la Brigata Anis Dabbashi e la Brigata 48.
Secondo una ricostruzione di The Times , Dabbashi avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez al Sarraj. Sempre secondo il Times , Dabbashi ha negato le accuse di contrabbando e il coinvolgimento nell’affaire italiano, spiegando che la sua brigata, che si compone di 500 uomini e fa parte del ministero della difesa del governo, stava solo controllando la costa.

LA SITUAZIONE SOCIALE E L’OPPORTUNITÀ POLITICA
La situazione socio-economica libica è così torbida, confusa, instabile e densa di attività criminali e guerre di potere, anche a causa di una crisi di liquidità e a traffici che riguardano anche le materie prime. Per sopravvivere, molti libici si affiliano a qualche milizia e si “riciclano” come trafficanti.
In ogni caso, stipulare accordi internazionali con una fazione o con l’altra, come ha fatto l’Italia, rischia di essere inopportuno, se non addirittura controproducente.
“L’Europa dovrebbero aiutare la Libia a creare un sistema di sicurezza – conclude Porsia – ma quello che è in piedi oggi è una farsa. Minniti, Macron, la Merkel e altri se ne stanno avvantaggiando per meri scopi elettorali, attraverso una riduzione del flusso migratorio”.

ASCOLTA L’INTERVISTA A NANCY PORSIA: