Nato a Newark nel New Jersey, contea dell’Essex nel marzo del 1933, Newark “the brick city” la città del mattone, pietre angolari come i suoi pensieri, le sue visioni e le tematiche quanto mai quotidiane e universali. Scompare il 22 maggio 2018, ma in realtà non morirà mai.

I critici lo hanno anche “bastonato” l’ebreo che odia gli ebrei, dicevano. Philip Roth odiava il non potersi esprimere con onestà, non poter approfondire il pensiero, non poter vivere a seconda degli impulsi naturali, ecco forse odiava molto di più questo, decisamente. Osservatore instancabile di se stesso attraverso gli altri, osservatore di una società alla quale non nascondeva il suo dolore per vederla più parallela alla quotidinità ipocrita wasp, piuttosto che alla tradizione che seppure “antica” almeno non aveva quel velo di violenta ipocrisia, ecco forse per queste caratteristiche criticava la società ebrea americana della seconda metà del 900 di cui lui è stato maestro narratore.

Non mettiamo, però recinti al suo talento, sarebbe l’errore più grave, dimentichiamo anche la famosa scrittura “americana”, certamente la linea di appartenenza è chiara, lo stile è unico e le influenze tipiche della East Coast più vicine alla cara “vecchia Europa” si sentono eccome. Figlio di immigrati galiziani di origine ebraica. Si è laureato alla Bucknell University, e ha preso il master alla Chicago University, in letteratura anglosassone. Si è dedicato poi brevemente all’insegnamento, tenendo corsi di scrittura creativa e di storia della letteratura alle università di Iowa e a Princeton.

Non certo erede, ma naturale prolungamento stilistico dei Singer e di Richler, abbandona presto la carriera di insegnante per dedicarsi alla scrittura, nel 1959 “Addio Columbus e cinque racconti” dove già con lucida e colta ironia trattava temi delicati come, la psicanalisi, il laicismo nella società ebrea statunitense e la satira del contemporaneo. Poco dopo arriva il capolavoro assoluto “Il lamento di Portnoy” dove con parole esplicite, si analizzeranno direttamente da un lettino da psicanalisi, ossessioni, lamenti, sfoghi sessuali, del giovane Portnoy, nonostante le critiche moraliste, il libro fu un successo clamoroso di vendite. La naturalezza di Roth nel trattare temi come la masturbazione ossessiva o il desiderio represso, lo portarono a essere al centro di un’ attenzione nel bene e nel male, quel male che non riusciva a superare lo scoglio di seguire la “naturalezza” delle sue “scurrilità”, non si tratta di contestualizzare, come va tanto di moda adesso, ma di leggere e non sentire quel “gessetto che graffia sulla lavagna” quando veramente leggiamo qualcosa di scurrile, ecco pur essendo un lettore “severo” in Roth, ho trovato la “naturalezza” nelle sue, scusate il termine “scurrilità”, termine che ovviamente, il grande autore non merita. 

La famiglia, la coppia (Lasciar andare, Lettin’ go, 1962), poi altre tematiche la Guerra Fredda (Ho sposato un comunista), e con “Il Grande romanzo americano, 1973” la presa in giro a Richard Nixon, l’ossessione anti-comunista di quegli anni negli USA, libro meraviglioso dove il baseball (altra quotidianità americana) diventa palcoscenico di queste narrazioni.

Arriviamo a “Pastorale americana, 1997” una cornice apparentemente perfetta, apre al declino e chiude la serie del protagonista Nathan Zuckerman, un personaggio che compare quale alter ego dell’autore in diversi romanzi di Roth, un romanzo definito dal Newyorker “Epocale”, con Pastorale americana, Philip Roth vincerà il Premio Pulitzer nel 1998. 

Si sposa due volte, la prima con Margaret Martinson, divorzierà nel 1963, la donna sventurata muore nel 1968 a causa di un incidente stradale,evento che segnò Philp Roth, nel romanzo “Quando lei era buona” l’autore le dedica ampie parti riconoscibili nel personaggio femminile principale. Un secondo matrimonio più tardi nel 1990 con Claire Bloom, un’attrice con la quale conviveva, divorzierà da lei nel 1994. Una storia d’amore che vorrei ricordare è con la sfortunata, ma ispirata scrittrice Janet Hobhouse, citata anche fra le righe nel capolavoro della Hobhouse “Le furie” libro meraviglioso.

Nel 2012, annuncia il suo ritiro, con una delle sue citazioni «Alla fine della sua vita il pugile Joe Louis disse: “Ho fatto del mio meglio con i mezzi a mia disposizione”. È esattamente quello che direi oggi del mio lavoro. Ho deciso che ho chiuso con la narrativa. Non voglio leggerla, non voglio scriverla, e non voglio nemmeno parlarne».

A tratti combattuto, sempre sincero, seriamente sorridente o ironicamente preoccupato, fra i personaggi da lui ammirati e citati: Milan Kundera, Isaac Bashevis Singer, Edna O’Brien, Primo Levi, Philip Guston, Franz Kafka. Un altro gigante che viene a mancare, ma che non ci farà mai sentire soli. 

PHILIP ROTH (Newark, 19 marzo 1933 – New York, 22 maggio 2018[)

      William Piana