Il teatro esiste solo nell’attuale ed è legato all’avverbio “adesso”, scrive nelle note di scena il drammaturgo Paolo Di Paolo presentando lo spettacolo più atteso della stagione ERT realizzato insieme al Direttore, in veste di regista. Longhi e Di Paolo non hanno inteso fare un’operazione archeologica su quella che era la “classe operaia”, ma hanno voluto ragionare sull’attuale precarizzazione del lavoro parlando alle orecchie di chi vive e soffre per la mancanza del lavoro nel 2018.

Ert e Paolo di Paolo presentano il nuovo spettacolo

Lo spettatore si accomoda in sala pieno di dubbi, di curiosità su quanto sta per vedere sulla scena. Un titolo così politico non si vedeva in cartellone da molto tempo, e il vuoto, l’assenza, per lo meno dalle scene maggiori, ha fatto pensare al tramonto del teatro politico, a una sua relegazione agli spazi “off”.

Tanti giovani seduti in platea e nei palchi sono accompagnati da insegnanti di una certa età, di quelli che negli anni ’70 erano studenti universitari e forse tra quelli che fuori dalle fabbriche incitavano gli operai alla rivoluzione, spronandoli a non cedere alle logiche dei padroni e a desiderare invece tutto e subito.

C’è la Bologna del teatro, della cultura, si vedono vecchi sindacalisti e assessori in carica, tutti, a luci ancora accese, sbirciano la citazione di Valery che appare sullo schermo posizionato in proscenio, che ci mette di fronte all’incantesimo su cui si regge il mondo sociale, di cui anche il teatro fa parte, consistente in convenzioni e abitudini. L’attesa, carica di aspettative, si trasforma in attenzione al lavoro scenico che s’avvia citando Esiodo, le “Opere e i giorni”, richiamando all‘etica del lavoro che informa la nostra civiltà.

Una catena di montaggio domina la scena. Siamo nel 2018 e quelli che prendono parola sono operai di oggi, che ancora assemblano pezzi di automobili e gelosamente difendono i privilegi della loro situazione lavorativa e salariale rispetto ad altri lavoratori- ingranaggi costretti a tempi ancor più stringenti di lavoro e ad una maggiore precarietà in altre fattispecie di catene di montaggio quali i magazzini di Amazon.

Dunque la classe operaia esite ancora, parla tutti i dialetti d’Italia ed è ancora costretta a ricatti e sacrifici. Il prologo nel 2018 chiarisce che l’intero spettacolo non è un’operazione nostalgia, ma vuole puntare il dito, lo stesso dito che nel finale del film di Petri schiaccia l’operaio, sui lavoratori del nostro secolo: precari e sfruttati e anche sui non lavoratori, disoccupati e sfiduciati che, secondo quel principio esioideo, instillato nelle nostre menti insieme al latte materno, a nostra insaputa provoca vergogna e dolore in coloro che non hanno un lavoro, condannati come “oziosi” anche quando è il lavoro a mancare e non loro ad essere cicale.

In scena compaiono il regista del film Petri e lo sceneggiatore Pirro che brechtianamente, citano il loro lavoro filmico, lo esaminano passo, passo facendo entrare gli spettatori in quel mondo del 1970 quando gli operai andavano in tuta a manifestare perchè la società li riconoscesse come “operai”.

Brechtiana è la scelta registica dell’intero spettacolo che usa proiezioni, canzoni, citazioni che spezzano la narrazione per ribadire i concetti espressi attorialmente, in altri modi, fissandoli nella memoria degli spettatori, divertendo non “gastronomicamente”, così da far salire il desiderio di prendere posizione sul tema affrontato una volta fuori dal teatro. La recitazione degli attori della compagnia è straniata, l’attore cita il proprio personaggio, lo mette in scena distanziandosene, oggettivandolo, mettendolo in causa ed esaminando la sua situazione/condizione da tutti i lati.

Gli attori hanno lavorato sui personaggi caricandoli, creando per loro una voce altra dalla propria, fornendogli una lingua altra, storica potremmo dire: l’operaiese, il sindacalese, lo studentese, l’intellettualese…. Lulù Massa (Lino Guanciale), come tutti gli altri, cita le proprie azioni e le mette sotto il microscopio.

Lo spettacolo ha voluto esaminare le contraddizioni del’ “operaio”  costretto a ingranaggio-macchina nel rispetto assoluto delle esigenze della macchina-fabbrica. L’asservimento alla macchina relega le esigenze più intime e individuali negli spazi residuali dell’esistenza. Sono esaminate altresì le contraddizioni del lavoro sindacale teso a oltranza alla conservazione dell’unità, a discapito anche qui delle situazioni particolari, e votato al compromesso con i padroni per salvaguardare posti di lavoro e salari. Il compromesso, la negoziazione va collidere con gli ideali più alti di giustizia e libertà portati dalla componente studentesca della vicenda, che non accetta alcun compromesso e mira alla totale rivoluzione, al tutto e subito. Lo studente fuori corso, disperato per la propria condizione miseranda, è altresì in contraddizione con se stesso, con i propri alti ideali di una vita libera e felice slegata dalle logiche del profitto. Anche il lavoro degli intellettuali Petri e Pirro è messo in causa drammaturgicamente nella simulazione del dibattito culturale seguito all’uscita del film dal quale è emersa l’accusa di aver messo in scena un operaio senza coscienza, con quoziente intellettuale troppo basso, oltre all’accusa di eccessiva partigianeria per l’unità sindacale e di intellettualismo, di aver fatto un film confuso in cui tutti in fondo potevano trovare “un pò del loro”: proletari e padroni, sindacalisti e idealisti.

Se qualche lungaggine nella prima parte dello spettacolo è evidente, specie nelle due scene che si riferiscono al commento di coppie di spettatori fuori dal cinema dopo la visione del film (di cui si rivedono 3 volte, quasi di seguito, i titoli di coda), che appesantiscono notevolmente la narrazione citando prima “la ragazza Carla” di Pagliarani e poi “Porci con le ali” della Ravera, convince la seconda parte che porta il discorso sull’esplosione delle contraddizioni delle diverse categorie sociali in gioco ed evidenzia come da un lato la logica del cottimo abbia portato tanti operai ad essere espulsi dal ciclo produttivo dalle conseguenze sull’equilibrio mentale e sul fisico del sistema- fabbrica; dall’altro lato abbia condotto la  classe operaia non già in paradiso, ma dritta diritta nel mondo dei consumi a comperare oggetti inutili, soprammobili, souvenir, conteggiati in ore di lavoro.

La classe operaia ha voluto assomigliare alla borghesia comprando oggetti simbolo del benessere, come l’agognata pelliccia della signora Lidia e si è crogiolata nel “miracolo molto economico” del Paese barattando forse il benessere con la giustizia sociale.

I nodi inevitabilmente sono venuti al pettine negli ultimi decenni, ci siamo ritrovati senza la massa degli operai ai cancelli perchè tante fabbriche hanno chiuso e quelle ancora aperte hanno bisogno di molto meno personale data la robtizzazione e informatizzazione in atto.

La classe operaia non fa più paura, disgregata com’è. Oggi regna, sottolinea Longhi nelle sue note, l’inconsapevolezza di appartenere al proletariato o al sottoproletariato prevalendo l’illusorio senso di appartenenza alla borghesia.

Lo spettacolo consegna al pubblico brechtianamente la decisione tutta politica di assumersi le proprie responsabilità rispetto alla situazione esistente di cui ha sviscerato le premesse, collegando le vicende di quarant’anni fa al qui ed ora. Sta agli spettatori ingoiare gastronomicamente il tutto, come fosse uno spettacolo di puro intrattenimento, o trarre qualche propria considerazione dalla visione esercitando, ad esempio, il proprio diritto di voto, prendendo posizione.

Accantonando un istante l’istanza politica, centrale evidentemente, nell’operazione teatrale, esaminando da un punto di vista teatrale lo spettacolo, voglio rimarcare la perfetta riuscita della scenografia di Guia Buzzi e dei costumi di Gian Luca Sbicca. Nota di merito va al musicista e arrangiatore Filippo Zattini che in scena suona magistralmente il violino e l’organo, contrappuntando l’azione scenica e sceglie alcune canzoni di Fausto Amodei tra cui l’ndimenticabile “Il tarlo” e “La Fanfaneide”, cantate poi, con chitarra in braccio, in giro per la platea, dall’attore Simone Tangolo, con l’aggiunta di alcune gustosissime strofette calzanti sull’oggi.

Lo spettacolo è estremamente corale nella resa attoriale e tutto sommato è riuscita l’operazione di oggettivazione dei personaggi tratti dal film, in particolare della coppia Lulù -Lidia con la definizione di voci “altre” caricaturali, forse tuttavia eccessivamente a imitazione di quelle degli attori Volontè e Melato.

La compagnia è piuttosto affiatata e l’insieme coinvolgente, eccezion fatta per le due scene già citate; la parte musicale, con le canzoni politiche di Amodei, è di grande effetto e davvero aiuta a puntualizzare il pensiero politico dietro l’apparato scenico e fa assaporare il divertimento che viene dall’esercizio intellettuale. C’è grande ironia nel trattare il fenomeno consumistico, nel ricordare i vecchi caroselli, la Susanna tutta panna, l’ “Ava come lava”, le assurde Ronson candles, c’è divertimento nel pensare agli italiani che eravamo e tanta amarezza nel guardare gli italiani che siamo diventati.

Il teatro politico, ci dimostra Longhi con questo spettacolo, può ancora essere rianimato e portato sui grandi palcoscenici, senza paura di essere anacronistici o presuntuosi. Traspare in fondo una certa nostalgia, non tanto per gli anni ’70, ma per quella passione politica che animava tante diverse categorie di persone allora e quel desiderio di discutere, di capire che stava dietro le infinute assemblee e dibattiti di quel tempo.

Se tutti quanti, inconsapevolmente, la ninna nanna al capitale l’abbiamo cantata ogni notte negli ultimi quarant’anni, lasciando agire indisturbati i manigoldi a produrre quattrini e valuta, a scapito della dignità del lavoro, lo spettacolo lascia aperta la porta ad azioni individuali e collettive capaci di riportare al centro del mondo sociale questi temi, svegliando chi si è adagiato su abitudini e convenzioni dell’edificio incantato in cui tutti viviamo.