Informazione mainstream e fake news vengono spesso considerate contrapposte, ma seguono alcuni meccanismi simili. La polarizzazione “vero o falso” e “innocente o colpevole”, in realtà, non restituisce la complessità della realtà e penalizza chi vuole mantenere uno spirito critico senza cadere nel complottismo, ma cercando l’approfondimento.

Nel confuso e disordinato dibattito su fake news, bufale o notizie false che dir si voglia, c’è un aspetto che non è stato ancora stato preso in considerazione. Spesso la questione viene posta in maniera dicotomica “vero o falso”: da un lato i professionisti stimati dell’informazione vera, dall’altro i maligni produttori di menzogne, che agiscono per ragioni economiche (il traffico e i click generati sui siti al fine di capitalizzare le inserzioni pubblicitarie) o per propaganda politica e sociale. Questo approccio, in realtà, riproduce la stessa polarizzazione che viene giustamente individuata come un problema nella fruizione delle notizie, dove i lettori e gli ascoltatori ricercano una conferma delle proprie convinzioni più che la conoscenza di fatti reali.

Nessun organo di informazione può attribuirsi il patentino della verità. Qualunque testata è incorsa, almeno una volta, nella pubblicazione di una notizia falsa o non corretta.
Spesso, quando a diffondere informazioni false sono i professionisti stimati, assistiamo a giustificazioni auto-assolutorie: si parla di “scivolone” o di incidente, oppure si trovano attenuanti che scaricano responsabilità sulle fonti. È veramente difficile che qualcuno dica “abbiamo sbagliato” e che, magari, riveli che l’errore è stato reso possibile da elementi come la fretta e l’inseguire un modello di informazione sempre più drogato dal marketing e basato sulla tempestività a discapito della verifica.

Ancora a monte, inoltre, c’è una peculiarità tutta italiana che riguarda gli editori. Sono pochissime, infatti, le testate di proprietà di editori puri, cioè che fanno solo quello e non sono legati a potentati economici o politici. Per quanto laici possano essere i giornalisti che lavorano per quelle testate, lo stesso assetto aziendale in un qualche modo condiziona e forma le loro prospettive sul mondo e sulla realtà. In altre parole: non puoi essere mai completamente indipendente se può capitarti di scrivere di chi paga il tuo stipendio.

La categoria dei giornalisti, un po’ per un atteggiamento corporativo e un po’ per un bisogno di riconoscimento che ha sempre stentato ad arrivare, sostiene di avere strumenti migliori, più qualificati, per l’interpretazione dei fatti rispetto al semplice cittadino. Un’affermazione sicuramente vera, ma altra cosa è la frequenza di utilizzo di quegli strumenti. Sempre meno frequentemente, infatti, i comunicati ufficiali e istituzionali vengono verificati prima di essere pubblicati. A volte si pensa che un virgolettato sollevi la testata dalla responsabilità. “L’ha detto quel politico, se ne assume lui la responsabilità”. Ma se il politico ha fornito un dato falso, alla testata rimane la responsabilità di aver veicolato un’informazione falsa, per quanto virgolettata.

Nessuno, dunque, è esente dagli errori e dalla diffusione di bufale. La divisione in “buoni e cattivi” è fuorviante se si vuole analizzare prima e contrastare poi il fenomeno delle fake news.
Anzi, senza essere paranoici o complottisti, si può affermare che le fake news siano un fenomeno perfettamente funzionale ad un modello sciatto ed embedded di informazione, che si nasconde dietro il paravento di una presunta obiettività. Non dicendo mai da che parte si sta, attraverso quali chiavi di lettura filosofiche, politiche, economiche o sociologiche si legge il mondo e ciò che accade, si vuole far credere al lettore o ascoltatore che i propri contenuti siano sovrapponibili alla verità assoluta, priva di sfumature ed interpretazioni, quando in realtà la stessa agenda setting è una chiara scelta di parte.

Eppure esiste una terza via, che spesso è stata snobbata, ignorata o irrisa dalla stampa mainstream e che risulta essere oggi la prima vittima delle fake news. Un tempo si chiamava “controinformazione” ed era una pratica politica nata in seno ai movimenti radicali degli anni ’70 allo scopo di contestare, verificare e bilanciare le informazioni che si ritenevano taciute o riportate in modo parziale e non obiettivo dagli organi di informazione ufficiali.

Lavorando per un mezzo di informazione che viene da quella storia, posso subito dimostrare che, contrariamente a quanto si potrebbe credere, la controinformazione è quanto di più distante dalle fake news. In alcune analisi sul fenomeno delle bufale, infatti, si sostiene che è la cultura del sospetto e del rancore a portare alla credulità delle persone. L’associazione con i movimenti radicali, per chi radicale non è, viene dunque facile. Se chi protesta è incazzato e non crede allo storytelling dei potenti, allora cercherà una propria verità, una verità che confermi le ragioni della propria rabbia. Questa non è controinformazione.

Un primo indicatore potrebbe essere il fatto che, nell’epoca della diffusione delle fake news, la protesta sociale è ai minimi storici e viene contenuta negli sfogatoi che sono i social network, con rari casi di tracimazione nella vita reale. Ma non è questo il punto.
Ciò che distingue nettamente la controinformazione dalle bufale sono due elementi: la scepsi bidirezionale e l’approfondimento attraverso l’inchiesta.

Chi fa controinformazione (che a ben vedere dovrebbe definirsi informazione effettiva) utilizza un approccio critico e dubbioso tanto verso le informazioni ufficiali, quanto verso le letture alternative. Non basta, infatti, nutrire il sospetto verso le veline di palazzo. Anche molte interpretazioni antagoniste scontano gli stessi errori, come parti di informazione trascurate strumentalmente o affermazioni che non hanno fondamenta in fatti e dati concreti.
La controinformazione non è una crociata, non porta a condurre sempre e comunque una battaglia, ma il suo scopo è quello di approfondire e verificare per avere una rappresentazione più aderente al vero.

È facile capire, allora, perché il senso critico e la controinformazione siano le prime vittime del dibattito sulle fake news e sulla polarizzazione di questo dibattito. Da un lato, perché le regole imposte da questo mercato editoriale, sbilanciate verso il business, la sensazionalità, la velocità e il culto del nazional popolare, adottate sia dai mezzi di informazione mainstream che dai dolosi produttori di notizie false, vede sicuramente penalizzato un tipo di informazione che, al contrario, si basa sull’approfondimento.

Dall’altro perché la divisione manichea del “vero vs falso”, e ancor di più quella “innocente vs colpevole” sacrifica l’analisi e getta ombre verso chi, invece, vorrebbe andare a fondo.
Un aspetto che a volte viene trascurato dai siti di debunking, il cui tipo di comunicazione, impostata su un certo entusiasmo nel smontare le bufale, finisce per sembrare una sorta di difesa d’ufficio dei bersagli stessi delle notizie false. Non è un caso se il debunking risulta una pratica utile solo a chi è già predisposto, secondo quanto evidenziato dal team dell’Università Ca’ Foscari guidato da Walter Quattrociocchi.

Un esempio: si può contestare la presidente della Camera Laura Boldrini senza credere alle menzogne diffamatorie che vengono fatte circolare sul suo conto. Ma finché le fake news su di lei monopolizzeranno la contestazione nei suoi confronti e finché si sarà invitati a schierarsi pro o contro Boldrini, i critici verso provvedimenti e condotte concreti della presidente della Camera verranno assimilati ai detrattori complottardi e diffusori di odio. E ciò non fa bene alla verità.