Gli occupanti di case londinesi e le pratiche gastro-politiche di consumo e redistribuzione. È la ricerca dell’antropologa Giovanna Capponi che verrà presentata il 10 aprile all’Unibo. Come gli squatter sopravvivono con gli scarti e i rifiuti della società consumista.

Vivere dello spreco della società consumista senza spendere un soldo e farne una pratica politica. È ciò che avviene negli squat londinesi e che è anche al centro della ricerca dell’antropologa Giovanna Capponi, intitolata “Chaos in the street, order in the kitchen“.
La ricerca, una cui sintesi è contenuta anche nel libro “Pop food” (ed. I libri di Emil) e che verrà illustrata in un seminario all’Università di Bologna il prossimo 10 aprile, indaga i modi di approvigionamento di cibo da parte degli occupanti di case della capitale inglese, attraverso la pratica dello “skipping“, termine britannico che indica il recupero di cibo o altro materiale nei rifiuti dei grandi magazzini.

“Chaos in the street, order in the kitchen – racconta Capponi – era una frase scritta su un cartello appeso su una cucina di uno squat di Londra e, oltre ad un invito a mantenere pulita la cucina, raccontava il processo di riordino della spazzatura, i rifiuti dei supermercati, nei quali si trovano tanti prodotti ancora consumabili che diventano l’alimentazione quotidiana degli squatters, che di essi si nutrono senza spendere un soldo”. Tanto vale per il cibo, quanto per altri oggetti – indumenti, elettrodomestici o arredamento – che vengono recuperati dai cassonetti e finiscono poi nei “freeshop“, spazi dove ciascuno può attingere ciò di cui ha bisogno senza pagare.

Una pratica che vediamo anche in Italia, nei cassonetti dove vanno ad approvigionarsi soprattutto i senzatetto e gli anziani che vivono ai margini, ma che a Londra assume una connotazione politica.
“È una pratica politica provocatoria – racconta l’antropologa – perché è effettuata da persone, afferenti all’area dell’anarchismo sociale, che non provengono da situazioni di marginalità, ma che vogliono sottolineare come il sistema di produzione, distribuzione e consumo delle società consumistiche capitaliste sia profondamente malato se si buttano via quantità ingenti di beni consumabili, quindi potenzialmente distribuibili a persone che non ne hanno”.

Un meccanismo del tutto simile al Last Minute Market, lo spin off dell’Università di Bologna che ha creato un meccanismo istituzionale per il recupero della merce invenduta, ma che negli squat londinesi, sul filo della legalità, si sostituisce al welfare istituzionale.
Non è un caso, infatti, che centrale in queste pratiche sia il concetto di dono, concretizzato in iniziative come le “People’s kitchen“, grandi banchetti preparati dagli squatters con prodotti di scarto, che servono per aprirsi al quartiere e rinsaldare la coesione sociale di una comunità.

L’operazione effettuata dagli squatter è anche di “riculturalizzazione” del cibo. Da un lato, infatti, lo spreco di carne assume una gravità che sa valicare l’orientamento alimentare degli occupanti, in gran parte vegetariani e vegani. Dall’altro lato, però, rimette in discussione, ad esempio, anche la data di scadenza degli alimenti, nata per una precauzione sanitaria, ma diventata funzionale anche all’attuale sistema di consumo.

A testimoniare, infine, la dimensione politica e rodata dello “skipping” e delle pratiche legate al recupero di beni da parte degli squatters, c’è un’organizzazione di supporto, fornita di numeri verdi e assistenza legale. “Gli squatters si muovono sempre in comunità – racconta Capponi – Gli squat si fanno forti di un’organizzazione alle spalle molto precisa. Una delle associazioni fondate con questo scopo si chiama ‘Squash‘, Squatters Action for Secure Homes, che cerca di rendere accessibile lo squatting come misura di emergenza ai senzatetto e a chi per questioni di emergenza non ha accesso ad una casa”.