Branciaroli ha dichiarato che lavorando su Medea non interpreta il ruolo di una donna ma si pone “nei panni di un uomo che recita una parte femminile”. Leggendo le note dell’attore, Medea non appare indagata in quanto donna, ma come forza distruttrice che, con ferocia, compie efferati delitti. Siamo certi che Medea sia solo la storia di una serial killer mostruosa e ambigua?

Ovviamente Medea non può essee definita solo dai delitti che compie e non credo lo pensasse nemmeno il compianto Maestro Ronconi quando nel 1996 ha affidato a Branciaroli il ruolo di Medea in una messa in scena straordinaria della quale conservo delle impressioni forti, per quanto offuscate dalla patina dei 21 anni trascorsi, che rimandano alla dinamicità della rappresentazione, alla forte presenza scenica del protagonista e all’imponenza e significatività della scenografia.

Sicuramente i ricordi, a tanti anni di distanza, non sono attendibili, eppure  mi aveva colpito allora il movimento scenico della pièce lasciandomi questa sensazione di dinamicità; allo stesso modo mi mi era  restato in mente che il registra avesse usato in modo interessante, per creare un movimento, motivato e mai gratuito, la scala che scenicamente conduce al Palazzo di Creonte. I miei ricordi, reali o costruiti, mi hanno predisposta all’attesa, nella ripesa indicata da Daniele Salvo come “filologica”, di un movimento scenico intenso che non ho ritrovato e di una centralità dell’elemento scenico “scala” che è mancato.

Venti anni pesano per tutti e forse nel ’96 Branciaroli davvero presentava una Medea meno statica su e giù per la scala che, ripesa filologica o meno, mi sembrava allora elemento più decisivo nell’economia della messa in scena.

La Medea di questo riallestimento è una Medea sublime quando Branciaroli abbassa la voce e la mostra sicura di sé, vera e sincera a colloquio con le donne di Corinto o con i figli, quando al contrario, la propone sopra le righe, falsa e subdola negli incontri con Creonte, Giasone ed Egeo, si sente il desiderio di uno sguardo più indulgente sulla potente maga barbara, uno sguardo che la raccontasse piuttosto come indomita, astuta, capace di indurre l’interlocutore a crederle per la forza delle sue argomentazioni, piuttosto che per l’arte della menzogna.

Torniamo di conseguenza al punto di partenza. Medea indagata non come donna, ma come “mostro, proteiforme, indecifrabile, ambiguo…” secondo le note di regia. Medea come incarnazione del diverso, della ferocia esogena che può mettere in pericolo un assetto sociale.

Interessante argomento, tuttavia Medea è diversa innanzi tutto in quanto donna, non si sfugge a questa tematica del femminile che è al centro del testo euripideo, dei suoi cori, dei discorsi della protagonista, ed è il motivo principe della straordinaria contemporaneità del testo, in duemila anni non invecchiato in una sola battuta.

Medea è diversa poi in quanto donna sapiente, colta, figlia di una cultura altra che le ha consegnato i segreti di arti pericolose in grado di procurare lutti, sofferenze indicibili. Questo secondo elemento di diversità è strettamente legato al primo: è inaudito, inaccettabile per Creonte come per Giasone, che sia una donna, e per di più colta, a non rassegnarsi al ruolo di vittima, di orpello sacrificabile in nome dell’opportunismo, dell’arrivismo, dei sacri voleri maschili. 

E siamo al terzo elemento di diversità e mostruosità di Medea: è straniera. Pur essendo donna, sola, in terra straniera, senza supporto familiare in Grecia, non si assimila, non si integra, resta una donna barbara legata ai propri usi e costumi. Un affrontonto per la xenofoba cultura ateniese degli spettatori delle rappesentazioni tragiche fondata sulla cittadinanza.

Figlia di un re barbaro, sapiente e quindi pericolosa, donna non disposta a piegare la testa davanti al tradimento e alle nuove nozze del marito. Assomma in sé tante facce del diverso, di quello che ancora oggi viene considerato altro, diverso da temere e quindi da tenere sotto controllo, oggi diremmo da attenzionare.

A mio parere la forza distruttrice più devastante le deriva dal suo essere donna, l’elemento caratterizzante di Medea, ineliminabile dal  piatto dell’analisi, è la sua mostruosità come donna e donna per di più sapiente. È infatti una delle poche donne protagoniste della letteratura di tutti i tempi e, per rincarare, è tra quelle, in numero nettamente inferiore, che non ci stanno ad intrpretare il ruolo di vittima. Medea, indomita, si alza in volo sulla città sul carro del sole da padrona delle arti magiche, capace di sacrificare il bene più caro, i figli, per vendicarsi di coloro i quali hanno pensato di addomesticare la sua pericolosità, di esiliarla senza conseguenze.

Non trovo nulla di male nel fatto che un uomo si metta nei panni di una donna, lo ha fatto Euripide scrivendone, lo ha fatto, se pure non volendolo riconoscere, il grande Branciaroli. Se molti più uomini nella storia si fossero lettralmente messi nei panni di una donna, saremmo forse a raccontare un altro presente. 

Mettersi nei panni altrui consente l’attivazione dell’empatia: quante violenze, omicidi o “semplici” tradimenti si sarebbero evitati se un maggior numero di uomini si fosse messo nei panni della donna umiliata, offesa, calpestata.

Per quanto dichiaratamente la messa in scena volesse indagare la furia distruttrice, la diversità nelle sue varie facce, lo spettacolo non può prescindere dal testo che mette in risalto la diversità di Medea come donna e la manifesta discriminzione delle donne nella societa greca, come nella nostra presente, nonostante le innegabili conquiste di diritti e garanzie.

Non c’è una sola battuta che sembri datata, una sola frase che una donna oggi non potrebbe ancora pronunciare perché, se anche oggi la legge consente alla donna di divorziare legalmente (nel testo si parla di ripudio del coniuge negato alle donne), sono tante quelle che pur offese, picchiate, sottoposte a soffrenze indicibili, non si allontano dal tetto coniugale perché prive di mezzi di sussistenza, magari sole in terra straniera.

Duemila anni di storia hanno portato a norme importanti, a conquiste, se pure sempre messe in discussione e costantemente bisognose di presidio, ma colpisce che ogni donna, ancora oggi potebbe pensare preferibile “mille volte trovarsi nella battaglia piuttosto che partorire una sola”.

Ultima notazione va, doverosamente, alle brave attrici in scena che spiccano e convincono pienamente: la nutrice Elena Polic Greco straordinaria voce del dolore femminile e il magnifico coro composto da Francesca Mària, Serena Mattace Raso, Odette Piscitelli, Alessandra Salamida, Elisabetta Scarano, Arianna di Stefano. La regia dei cori sembra smentire clamorosamente il ridimensionamento della tematica femminile nella messa in scena che letteralmente la invade con aspirapolveri, pancioni, dolori e solidarietà per l’appunto, di donne.

Spettacolo dcisamente corale, seppure centrato sulla fisicità di Branciaroli, intensa l’interpretazione di Tommaso Cardarelli come pedagogo e nunzio, non passa inossrvata. La ripesa registica tiene e affascina; forse, come già ipotizzato, l’originale risultava più dinamica, ma vent’anni non aiutano un ricordo attendibile.

Spettacolo da vedere e rivedere, in cui l’interpretazione maschile della protagonista femminile aiuta forse ad oggettivizzare, a prendere in esame tutti i punti di vista sulle tematiche affrontate per ipotizzare oggi, per le caregorie discriminate, non più un’uscita di scena che lasci dietro sé una strage, ma possibili nuove forme di convivenza allora inimmaginabili.