La città è finita in mano a poteri autoritari il cui contrappeso dovrebbe essere rappresentato dalla politica, che appare invece burocrate e balbettante. Lo sgombero di Crash e Làbas si inserisce in questa deriva, cui bisognerebbe far fronte unendo tutte le forze sociali e i movimenti e lasciando da parte le ambizioni egemoniche.

“Accogliente”, “solidale”, “laboratorio politico”. Queste formule, un tempo attribuite al capoluogo emiliano, possono essere tranquillamente cancellate dal dizionario di Bologna. La città vive da ormai lunghi anni un’involuzione che la sta sempre più velocemente trasformando in un deserto provinciale, dove a regnare sono tutti gli archetipi della più becera società dei consumi, dove il fermento, l’inventiva, la sperimentazione sono banditi per far posto allo shopping, alle strutture di lusso a cui ben pochi cittadini possono avere accesso, al “food” e mille altre porcherie di marketing per nascondere il vuoto culturale e l’incapacità politica dei suoi dirigenti.

Sono innumerevoli le operazioni a cui ormai abbiamo assistito nel recente passato e nel presente. Da improbabili progetti infrastrutturali finiti nel nulla o nelle aule giudiziarie, a Disneyland del cibo, come se l’alimentazione fosse un parco giochi; da sedicenti mecenati che rubano le opere d’arte donate dagli street artist alla città per farne una lucrosa mostra, a roboanti ordinanze che vietano di bersi una birra alle cinque del pomeriggio; dall’assedio di occupazioni abitative terrorizzando i bambini presenti, allo schiaffo ai cittadini che hanno vinto una consultazione contro i finanziamenti alle scuole private; dallo sgombero di spazi lgbtq riconosciuti a livello internazionale per far posto alla polvere, all’irruzione violenta nell’Università, fino alla devastazione e al saccheggio non rivendicati di circoli culturali al fine di ricattare i gestori e indurli a saldare più velocemente i debiti.

Lo sgombero di Crash e Làbas operato questa mattina si inserisce a pieno titolo nella deriva in cui sta scivolando la nostra città. L’autoritarismo fascistoide che osserviamo a livello nazionale – perfettamente incarnato dal ministro degli Interni Marco Minniti, che conta di risolvere il disagio sociale facendo guerra ai poveri e conta di fermare l’immigrazione ostacolando i salvataggi in mare e stringendo accordi militari con la Libia – non descrive a pieno le dinamiche che si registrano sotto le Due Torri, cominciate prima e per ragioni solo in parte riconducibili alla generale involuzione.
Sembrava impossibile data la sua storia, ma Bologna è caduta nelle mani di poteri autoritari e ciechi, cui una politica burocrate e balbettante non sa opporre alcuna resistenza.

Il protagonismo della Procura, che non ha tempo ed elementi per indagare sui mandanti della strage alla stazione di Bologna, ma trova il modo di ordinare alla Questura lo sgombero di due innocui e produttivi centri sociali, vuole affermare un distorto valore della legalità, che è tale solo quando riguarda gli altri, mentre per i suoi uomini, talora sospettati di istigazione al suicidio, non mostra la stessa fermezza.
Per contro, la giunta cittadina è ostaggio delle guerre intestine al Partito Democratico ed è in mano ad un sindaco che non ha mai dimostrato autorevolezza, capacità politiche e sufficiente intelligenza per gestire fasi delicate della vita sociale della città.

Il rischio corso da Virginio Merola alle ultime elezioni amministrative, quando è andato vicino a lasciare Bologna in mano alla Lega, si è tradotto in proclami inutili sulle periferie, buoni solo ad attrarre i soldi governativi da impegnare in progetti di gentrificazione e speculazione.
Il Comune non saprà spendere bene i milioni di euro destinati alle periferie, dal momento che non è nemmeno in grado di accorgersi dell’esistenza di progetti che gratuitamente costruiscono socialità, coesione sociale e un altro modo di stare insieme.

L’Amministrazione dovrebbe investire o almeno riconoscere quei progetti che in questi anni hanno saputo gestire e ricondurre a modalità democratiche il disagio sociale, la povertà crescente, il fenomeno migratorio, l’emergenza abitativa, l’abuso di sostanze stupefacenti.
Le uniche dichiarazioni che abbiamo sentito, invece, sono state per invocare sgomberi, decretare presunte incompatibilità col territorio o al limite, fuori tempo massimo, dispiacersi per l’epilogo violento di importanti esperienze e offrire a posteriori un dialogo che non è stato cercato prima.

Bologna, per come è diventata famosa, per come l’abbiamo conosciuta, è morta. Tutte le forze sociali che in questi anni, ciascuna nel proprio campo, hanno tentato di opporsi a questa deriva, dovrebbero mettere da parte le ambizioni egemoniche, i futili screzi, gli inutili e posticci distinguo e fare un fronte veramente comune che cominci a contrastare quanto è già realtà in città.