Abbiamo chiesto anche al giornalista Carlo Gubitosa cosa pensa della pubblicazione delle foto del piccolo Aylan, il cui corpo privo di vita è stato ritrovato sulle spiagge turche di Bodrum. “Dipende dal contesto”, sostiene Gubitosa: è giusto che i giornali e chi fa informazione pubblichi, ma “pubblicare è diverso da ripubblicare”. Il giornalista difende la pubblicazione per “dovere di informazione”, ma è contrario alla condivisione sui social network.

Bambino Morto: E’ giusto pubblicare la foto?

Pubblicare la foto del bimbo morto trovato sulla spiaggia di Bodrum, per il giornalista Carlo Gubitosa, risponde al dovere di informare, ed è giusto che gli operatori dell’informazione pubblichino quell’istantanea. Ma pubblicare, sostiene, è cosa “diversa dal ripubblicare”. No, dunque, alla condivisione sui social network, perchè serve “competenza, professionalità ed etica”.

Carlo, Hai sottolineato il fatto che per la pubblicazione di foto è importante anche il contesto.

Certo. Di fronte alle foto delle tragedie ognuno è chiamato a confrontarsi con la propria situazione e con le persone a cui si rivolge. Io ho dichiarato pubblicamente che non avrei fatto circolare sul mio profilo facebook le foto dei migranti annegati. Questo perchè, in quel contesto, per me prevale il rispetto delle persone e delle vittime. Tuttavia, se fossi il direttore di una testata giornalistica, farei esattamente quello che è stato fatto da alcuni quotidiani, uno per tutti il Manifesto, perchè in quel contesto il dovere di cronaca, il dovere di registrare un episodio della storia europea – di cui certo non dobbiamo andare fieri -, in quel caso, in quel ruolo, purtroppo il compito ingrato di chi deve raccontare il nostro tempo sui quotidiani porta degli obblighi che noi, nel nostro chiacchiericcio quotidiano sui social network, non abbiamo. Quindi è un interrogarsi sulla propria coscienza, sul proprio ruolo, sulle intenzioni che abbiamo nel far circolare certe immagini. Non condivido la polarizzazione del discorso che si fa quando si dice ‘va sempre pubblicato tutto, a priori, ovunque’, oppure ‘va sempre occultato tutto, a priori, in qualunque contesto’.

Oltre alla pubblicazione, sono importanti anche i contenuti. Sapere che cos’è una foto, chi rappresenta, chi ritrae, eccetera…

Certo. Di sicuro quelle foto scriveranno una pagina buia dei tempi in cui viviamo. Proprio perchè si tratta di una pagina di storia, la foto non si può fermare all’immagine, ma va accompagnata da informazioni di contesto: da cosa stavano scappando le persone che hanno perso la vita, quali sono i rapporti di forza politico-economi tra i nostri Paesi e quelli dei fuggitivi e dei migranti economici, a cui io riconosco la stessa dignità dei profughi e di chi scappa dalle guerre, perchè la miseria e la guerra sono due cose da cui si ha tutto il diritto di scappare. Quindi spero che queste immagini non siano un rito catartico che si chiude nell’emozione di un attimo, ma servano a tutti noi per prendere un po’ di coscienza: ai politici del loro ruolo, a noi del nostro ruolo di cittadini inseriti in un sistema di comunicazione elettronica sempre più pervasivo, e agli operatori dell’informazione per raccontare certi fenomeni con onestà, con il maggior dettaglio e rispetto possibile.

È interessante riflettere anche sulla pubblicazione di foto sui social network, e in particolare sul ruolo sociale che può o meno avere una fotografia. Tu scrivevi che una fotografia come quella che sta circolando, sono un pugno allo stomaco per chi già è sensibilizzato su questo tema, mentre a un razzista non sposta una virgola.

Sì. Bisogna interrogarsi molto sugli effetti. Tutte le volte che ho visto riproposte a raffica, continuamente trasmesse dalla Cnn, le immagini delle persone che si buttavano dalle Torri Gemelle o dagli aerei che si schiantavano, ho cercato di immedesimarmi nei parenti delle vittime e in generale in chi non aveva nessun vantaggio informativo nel rivedere, per l’ennesima volta, scene d’orrore. Purtroppo le tecnologie ci portano a giocare molto più facilmente con l’orrore, con la morte, con la tragedia, ma mai come di questi tempi deve essere forte la responsabilità sociale di chi condivide informazioni, la consapevolezza che ripubblicare è diverso da pubblicare. Bisognerebbe avere la competenza per capire come funzionano i vari strumenti, la professionalità per utilizzarli in maniera efficace, ma anche la deontologia e l’etica professionale per rompere gli automatismi e fare in modo che ogni fotografia, ogni scelta editoriale, sia frutto di un ragionamento condito da sensibilità umana e arricchito dal rispetto delle regole della professione e dell’etica che ognuno di noi sviluppa nel raccontare le cose. Da questo punto di vista, credo che la pubblicazione delle foto delle tragedie dei migranti, in questo caso, in queste ore, risponda più a un dovere di cronaca che a un abuso o a un eccesso. Quindi sono contento che questo dovere di cronaca sia assolto da chi ha il dovere di raccontare, ma io personalmente non sbatterò in faccia ai miei contatti facebook le foto dell’orrore, perchè ritengo che non sia il mio compito e non sia utile.

Al di là del dibattito sulle fotografie, perchè secondo te tarda ad arrivare una risposta degli antirazzisti rispetto al dilagare della xenofobia alla Salvini eccetera?

Perchè oggi in Italia non esiste un fronte culturale antirazzista che sia capace di esprimere quella pervasività culturale, quell’impatto sul consenso e sull’opinione pubblica che invece esprime l’idea fascio-padana dell’intolleranza. Quindi c’è da interrogarsi sulle responsabilità di tutti: degli intellettuali, di chi fa narrazione giornalistica, di chi fa cronaca televisiva, di chi deve decidere quotidianamente se dare spazio a quello che racconta la pancia o a quello che racconta la testa. Spesso si oscilla tra la pancia e il cuore, affidando la pancia alla rabbia e all’intolleranza e il cuore all’accoglienza e all’apertura. Io vorrei che si cominciasse a ragionare con un po’ di testa, capire quanto ci costa tenere alte le barriere della fortezza Europa, capire quanta ricchezza porta il gettito fiscale, i contributi pensionistici dei migranti, capire se davvero ha senso che in un mondo dove le tecnologie abbattono le frontiere dell’informazione, dove il mercato abbatte le frontiere delle merci, accanirsi sulle frontiere nazionali e se invece non si potrebbe passare a un mondo dove la suddivisione non è fatta in base al passaporto, ma in base a chi vuole offrire un contributo positivo a una società e chi invece non porta un contributo valido. Tra quelli che contribuiscono, in Italia, ci metto anche i migranti che pagano le pensioni dei nostri nonni con i loro contributi Inps, tra chi sta offrendo un contributo negativo, ci metto anche quegli italianissimi che seminano solo odio, e non sappiamo se il loro raccolto sarà la solita indignazione a buon mercato della destra, o se – e c’è il rischio concreto – questo raccolto può sfociare in scontri e violenze di cui abbiamo già visto l’epilogo nei Balcani, e che non vorremmo rivedere a casa nostra. l’odio etnico è una brutta bestia, chi lo usa cinicamente per alimentare consenso elettorale dovrebbe farsi un serio esame di coscienza e vedere se, magari, non ci sono modi più civili per prendere gli stessi voti.