“L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo”. Con un ribaltamento concettuale in chiave reazionaria, la campagna antiabortista di Citizen Go prende due temi cari al femminismo mettendoli in contrapposizione. Peccato che la teoria sia antiscientifica, sia sul piano biologico che sociale.

Sta sollevando polemiche la campagna antiabortista di Citizen Go, che ha deciso di “celebrare” a modo suo il quarantesimo anniversario della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il fulcro della campagna è l’affissione di grandi manifesti in cui si vede il ventre di una donna incinta e lo slogan: “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo“.
Per quanto aberrante e disgustoso, il messaggio però rivela una certa furbizia semiotica, che vale la pena di essere analizzata.

Innanzitutto occorre scoprire chi sono gli autori di questa campagna. Come ricostruisce Stefano Santangelo su Vice , Citizen Go è “una sorta di MoveOn ultracattolico e conservatore che è presente in diversi paesi, ed è nato nel 2013 come fondazione per mano di HazteOir, un’associazione spagnola legata a El Yunque, una società segreta messicana di estrema destra. Nel direttivo della sezione italiana di CitizenGo, invece, ci sono figure che fanno parte di Generazione Famiglia – emanazione italiana de La Manif pour tous – e del comitato Difendiamo i nostri figli, lo stesso che ha organizzato i Family Day del 2015 e 2016“.

Il gruppo, dunque, è contraddistinto dall’ultradestra e dall’integralismo cattolico, posizioni che riservano alla donna un ruolo di sottomissione nella società.
Tuttavia, in questa campagna viene utilizzato un tema caro al femminismo: la violenza sulle donne nella sua forma più estrema, il femminicidio. Il tema, però, viene ribaltato con un esercizio retorico abbastanza astuto, mettendolo in contrapposizione con un altro tema proprio dei movimenti femministi: l’autodeterminazione della donna attraverso lo strumento dell’aborto.

Se spesso l’estrema destra e il fondamentalismo religioso contestano il concetto stesso di “femminicidio”, rifiutando la lettura che inquadra il fenomeno in una cornice patriarcale, in questo caso sembrano apparentemente accoglierlo, ma solo perché gli obiettivi sono altri due: la colpevolizzazione della donna, che abortendo diventerebbe aguzzina di altre “potenziali donne” (e quindi implicitamente confermando il rifiuto della chiave di lettura patriarcale), quindi la conseguente trasformazione della donna da vittima della violenza di genere a carnefice.

La peculiarità dell’operazione comunicativa, dunque, sta proprio nel ribaltamento concettuale in chiave reazionaria di due istanze femministe e nel tentativo di metterle in contrapposizione.
Se si analizza dal punto biologico e socio-antropologico il messaggio di Citizen Go, però, è molto facile smontarlo come antiscientifico.

Dal punto di vista biologico è facile constatare che in Italia le interruzioni volontarie di gravidanza possono essere praticate entro i primi 90 giorni (12 settimane), mentre gli organi genitali del feto si vedono con certezza al quinto mese di gravidanza. Dunque non è possibile affermare che nell’aborto vi possa essere l’intenzionalità di uccidere una donna, per quanto ancora “potenziale”. L’aborto, inoltre, colpisce in egual misura anche feti maschili, dunque non può rientrare nella definizione di “femminicidio”.
Dal punto di vista socio-antropologico, inoltre, l’assunto degli ultra-cattolici è profondamente sbagliato, perché il femminicidio non riguarda il sesso, ma il genere: il ruolo sociale riservato alla donna.
Proprio quest’ultimo, nei contesti del mondo dove è presente l’aborto selettivo, è ciò che condiziona le “scelte”. Dunque, ancora una volta, il problema non è l’aborto, ma il patriarcato.

Angela Balzano di Non Una di Meno Bologna analizza la strategia dei gruppi No Choice (Pro Life):